Nimby - Not In My Backyard, la recensione

Tra Indovina chi viene a cena e un film di Romero, Nimby - Not In My Backyard fallisce nel tentativo di unire satira e lezioncina morale

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Satira e lezioncina morale, sguardo impietoso e conciliante, possono andare a braccetto? Nimby - Not in My Backyard, ibridando sottogeneri e atmosfere, ci prova, dimostrando come sia controproducente. Diretto da Teemu Nikki (Il cieco che non voleva vedere Titanic), il film racconta di Marvi e Kata, due giovani fidanzate da un anno che decidono di fare coming out con le rispettive famiglie, fino ad ora rimaste all’oscuro. Si recano così nella piccola città natale di Marvi, facendo i conti con la ristretta mentalità locale. Da Berlino arrivano anche i genitori di Kata, la cui madre è la responsabile dell'agenzia dei rifugiati delle Nazioni Unite.

Quale sia il suo discorso portante, Nimby lo enuncia già dal suo sottotitolo: mettere in luce quanto tutti tendano a giudicare l’esterno senza accorgersi di quello che accade all'interno del proprio cortile. Senza fare sconti a nessuno: al gruppo di neonazisti locali (tra cui l’ex fidanzato di Marvi) con la missione di cambiare il mondo, agli uomini di Chiesa diffidenti con le altre religioni, ai genitori aperti ai rifugiati ma non all’orientamento sessuale della propria figlia, agli stessi immigrati che non esitano a ricorrere alla violenza. I pregiudizi, l’inflessibilità della propria posizione che impediscono una reale comunicazione tra le parti sono evidenziati dal mescolarsi continuo di tre lingue differenti (inglese, finlandese, tedesco) in un calderone in cui, per spettatori e personaggi, è difficile orientarsi. Tra tutti, è da subito evidente che l’unica diversa sia Marvi, in quanto portatrice di uno sguardo capace di capire e tollerare l’altro. Un manifesto d'intenti così chiaro e preciso da andare a scapito della dimensione comica.

Nella prima parte, assistiamo a una sorta di Indovina chi viene a cena in Finlandia, in un ribaltamento dell’assunto di base (la progressiva accettazione dei propri genitori) sulla scia di Get Out. Ma se Peele metteva in primo piano la cornice horror-grottesca per far emergere la questione razziale, Nikki procede all’incontrario. Il suo sguardo infatti si rivela troppo serio e implacabile, troppo focalizzato nel delineare il suo teorema, da lasciare scaturire la vis comica delle figure macchiettistiche che delinea. Così tutte le situazioni che vorrebbero essere divertenti, in realtà non lo sono mai. Ad esempio, nella scena del pranzo dove si confrontano tutte le ideologie dei personaggi, a emergere, più che la loro nevrosi, è l’atteggiamento giudicante di Marvi e Kata (e del regista stesso).

Nella seconda parte, l’assedio teso dai neonazisti costringe i protagonisti a condividere lo spazio ristretto della loro abitazione, occasione per fare deflagrare le proprie divisioni ma anche per una reciproca e inaspettata conoscenza. Ancora una volta, i toni sono indecisi: da una parte, c’è il tentativo di creare dinamiche da siege movie alla Peckinpah o alla Romero, ma con tinte da black comedy. Così, non si crea mai reale tensione, finendo per rendere prevedibile lo svolgimento, né si punta abbastanza sulle atmosfere surreali da strappare qualche risata. Anzi, in questo frangente trovano spazio approfondimenti psicologici e rivelazioni dei background dei personaggi: la satira dunque si stempera in dramma, con parentesi del tutto superflue. In questo modo, nella sua ambiguità di fondo e nei suoi continui cambi di passo, Nimby non trova mai forma compiuta.

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