Niente da perdere, la recensione
Poggiandosi interamente sulla convincente prova di Virgine Efira, Niente da perdere si dimentica della costruzione dei personaggi per puntare tutto sull'empatia
La nostra recensione di Niente da perdere, dal 16 maggio al cinema
Niente da perdere si colloca sulla scia delle opere di Ken Loach: la strenua lotta del singolo contro il sistema, il calore delle persone contro la freddezza delle istituzioni (ben rappresentate dal volto coriaceo dell'assistente sociale interpretata da India Hair). Il messaggio del film è chiaro, così come la prospettiva del racconto. La potenziale ambiguità nel ritratto della protagonista (la possiamo considerare una buona madre, se lascia spesso i figli da soli?) viene completamente annacquata dalla regista/sceneggiatrice Delphine Deloget, che non ha dubbi sul suo conto e non si fa problemi nel sottolinearlo con insistenza. I problemi comportamentali del bambino nascono evidentemente dalla lontananza con la madre, destinati a peggiorare se non può tornare tra le sue braccia. Così, i primi piani di Efira, soprattutto quelli in cui si lascia andare alle lacrime, diventano un'arma a doppio taglio, sintomo di un'opera che ha poco da dire oltre il suo slogan e che porta avanti il suo discorso con un approccio non funzionale.