Niente da perdere, la recensione

Poggiandosi interamente sulla convincente prova di Virgine Efira, Niente da perdere si dimentica della costruzione dei personaggi per puntare tutto sull'empatia

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La nostra recensione di Niente da perdere, dal 16 maggio al cinema

Virgine Efira è ormai una garanzia pure nelle operazioni ben poco riuscite. I suoi intensi primi piani esprimono con grande efficacia un'interiorità complessa, energica o disperata, ma mai doma. I registi e le registe fanno spesso affidamento su di lei per reggere da sola un film intero, a volte dimenticandosi però che non è sempre sufficiente. Dopo essere stata una donna che ama I figli degli altri, in Niente da perdere è Sylvie, madre sigle con due figli piccoli che lavora come barman. Una notte il più piccolo si ritrova coinvolto in un grave incidente. Questo desta l'attenzione dei servizi sociali, che impongono il temporaneo affidamento del bambino in attesa del processo. Determinata a riunire la sua famiglia, Sylvie si immerge in una battaglia legale piena di ostacoli.

Niente da perdere si colloca sulla scia delle opere di Ken Loach: la strenua lotta del singolo contro il sistema, il calore delle persone contro la freddezza delle istituzioni (ben rappresentate dal volto coriaceo dell'assistente sociale interpretata da India Hair). Il messaggio del film è chiaro, così come la prospettiva del racconto. La potenziale ambiguità nel ritratto della protagonista (la possiamo considerare una buona madre, se lascia spesso i figli da soli?) viene completamente annacquata dalla regista/sceneggiatrice Delphine Deloget, che non ha dubbi sul suo conto e non si fa problemi nel sottolinearlo con insistenza. I problemi comportamentali del bambino nascono evidentemente dalla lontananza con la madre, destinati a peggiorare se non può tornare tra le sue braccia. Così, i primi piani di Efira, soprattutto quelli in cui si lascia andare alle lacrime, diventano un'arma a doppio taglio, sintomo di un'opera che ha poco da dire oltre il suo slogan e che porta avanti il suo discorso con un approccio non funzionale.

Al soffermarsi su Sylvie e alla manichea divisione delle forze in campo, si aggiunge il farsi dramma sempre più cupo, in un climax inesorabile. Tutti elementi che rendono Niente da perdere alquanto ricattatorio, per come cerca di portare lo spettatore dalla parte della donna puntando sui sentimenti e un'empatia forzata, invece di costruire uno svolgimento accattivante. L'effetto, come spesso accade, è l'opposto di quello prefissato: distanza dalla protagonista piuttosto che immedesimazione, una sensazione di operazione costruita, piuttosto che sincera. Non basta a salvare il film un finale che lascia intravedere uno spiraglio di luce e porta la storia, fuori tempo massimo, verso lidi inaspettati.

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