Nessun nome nei titoli di coda, la recensione

La vita dell'ultimo lavoratore di Cinecittà che sia stato attivo già negli anni '50 in Nessun nome sui titoli di coda è un'ode del cinema dal basso

Critico e giornalista cinematografico


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È arrivato da qualche giorno su Prime Video un documentario tra i più scarni e secchi in circolazione, uno che ad una messa in scena quasi brutale per la sua noncuranza del lavoro sull’immagine associa un contenuto altrettanto secco e brutale. Si chiama Nessun nome nei titoli di coda e l’ha diretto Simone Amendola. Era passato fugacemente alla Festa del cinema di Roma e adesso invece è visibile da tutti. Si tratta di un resoconto della vita di Antonio Spoletini, oggi. Lui è il più grande casting director italiano, o almeno quello in circolazione da più tempo. È l’unica persona a lavorare oggi nel cinema che fosse in attività già negli anni ‘50. Nato nell’anno in cui nasce Cinecittà ha passato una vita a trovare comparse e fa la stessa cosa oggi. Il cinema cambiava lui no.

La vita di Spoletini è raccontata prendendo un momento a caso, uno come tanti, in cui sta mettendo insieme cardinali per la produzione di I due papi e poi, finito quel lavoro, attende l’arrivo di un altro. In mezzo cerca di recuperare una copia in pellicola di Roma di Fellini, perché è l’unico film in cui compare lui con tutti suoi altri fratelli. Erano tutti impiegati nel cinema, oggi è rimasto solo lui. Una copia in pellicola del film da possedere sarebbe una testimonianza della sua vita e di quel che ha fatto da tramandare in famiglia. Si dice una ce l’abbia Sorrentino, forse gliela dà, e poi le telefonate e ancora in radio a fare un appello.

Non vuole mai essere appassionante Nessun nome nei titoli di coda, anzi. Ha il fare calmo della vita di Spoletini, più di 80 anni, al lavoro con modi e ritmi degli anni ‘60, capace di andare ancora personalmente davanti alla moschea di Roma a cercare persone che vogliano guadagnare due soldi facendo le comparse: “Cerchiamo gente come voi… Rifugiati!”. È l’immagine migliore di tutto il film, non solo perché sveste Spoletini dell’aura mitica che lui stesso si attribuisce, quella dell’ultimo grande artigiano di Cinecittà, ma spostandolo da dentro quelle mura e mettendolo altrove svela (se ce ne fosse bisogno) la natura del suo lavoro. Tutto parola, convinzione, volantini e bigliettini con un numero da chiamare. Tutte dinamiche d’altri tempi sensate ancora in un mondo di persone che svoltano con qualche comparsata.

Ovviamente è un’ode al cinema fatto dal basso, fatto a mano dalle persone che non ci guadagnano grandi cifre, che fanno i compiti ritenuti meno nobili ma che lo stesso hanno attraversato la grandezza, come testimonia Roma o l’altra immagine cruciale, Spoletini che gira per Cinecittà con un busto di Fellini. Come tutte le maestranze anche lui vede in Fellini la punta di nobilitazione della sua professione, e identifica se stesso con quel cinema (di cui è stato anche comparsa, che gli ha donato il primo piano sul grande schermo), quel modo di essere, di intendere quel lavoro e naturalmente anche con quel tipo di successo. Non è sempre così, non è sempre vero. Ma è eccezionale la maniera in cui la figura di Spoletini incarni ancora oggi il passato, anche quando si confronta con un altro artigiano del cinema che sembra riconoscere come suo pari, Dante Ferretti, il cui successo e la cui eco però lo nobilitano molto di più e che comunque è un ragazzino a confronto suo.

Non sempre quest’aria così fieramente proletaria del documentario è a fuoco ma non ci sono dubbi che Amendola ha la capacità di cogliere in una vita ordinaria e un lavoro ordinario, quello che lo rende speciale ai suoi occhi e che sappia trasmetterlo.

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