Nemico pubblico - la recensione
John Dillinger diventa il maggiore rapinatore di banche negli anni trenta, mentre la polizia fa di tutto per catturarlo. Alcune cose interessanti, ma in generale la pellicola di Michael Mann non convince troppo...
Recensione a cura di ColinMckenzie
TitoloNemico pubblicoRegiaMichael MannCast
Johnny Depp, Christian Bale, Marion Cotillard, Giovanni Ribisi, Billy Crudup, Stephen Dorff
Uscita6 novembre 2009
La scheda del film
La storia di John Dillinger, il gangster più famoso degli anni trenta in America, ha ispirato uno splendido film, pieno di personaggi costruiti benissimo, un'energia trascinante e delle immagini meravigliose rese possibili da uno straordinario lavoro di regia e di direzione della fotografia. Inoltre, il senso di ambiguità non scade mai nella fascinazione verso il protagonista, che risulta una figura contraddittoria, mentre la descrizione dell'epoca è semplicemente perfetta. Il nome di quel film è Dillinger, realizzato da John Milius nel 1973 (1).
Ora, Nemico pubblico, a scanso di equivoci, non è un brutto film. Con quello che passa il convento, mi aspetto anche che venga trattato bene da critica e pubblico qui da noi. Tuttavia, da Michael Mann non mi aspetto un film medio, ma qualcosa che ogni volta definisca il cinema o almeno tenti di farlo. Qui, non è neanche ben chiaro quale fosse l'intenzione del regista. Glorificare il protagonista, con la solita parabola dell'eroe ribelle? Un po' è così, ma a parte che il tema ha ormai stancato, il personaggio descritto non è certo così forte da reggere un discorso del genere. Poteva essere interessante la riflessione sugli affari e il cinismo della malavita, ma Mann la apre e la chiude praticamente nel giro di cinque minuti. E il racconto è troppo limitato ai personaggi per parlarci anche dell'epoca in cui avvenivano questi fatti. La confusione è tale che l'ultima scena del film vorrebbe essere sentimentale, ma ovviamente non può funzionare se fino a quel momento i personaggi non hanno espresso sentimenti.
Ma il problema maggiore del film è senza alcun dubbio la fotografia. Non pensavo che avrei mai potuto pronunciare un'affermazione del genere per una pellicola di Michael Mann, ma la scelta di girare in digitale un film d'epoca è stata senza dubbio uno sbaglio. Soprattutto le scene notturne in interni sono pessime (una sequenza a casa della protagonista e quella al Little Bohemia le peggiori), con dei volti virati verso un rosso eccessivo e (talvolta) delle immagini così sgranate che sembrano riprese da una videocamera amatoriale.
Certo, in alcuni casi ci sono grandi momenti e scelte stilistiche fantastiche. Magari durano dieci secondi, ma ci ricordano che grande regista che è (era? potrebbe ancora essere?) Michael Mann. Dopo cinque minuti, per esempio, vediamo una donna disperata con prole che chiede al gangster di portarla con sé. Piccolissimo momento, ma chiarisce cos'era la Depressione meglio di mille parole. O magari penso a una scena a un semaforo, che è un piccolo saggio di come si regge e si costruisce la tensione.
Ma nel finale, un paio di cadute di tono risultano veramente preoccupanti, con scene sinceramente inverosimili (almeno per il modo in cui sono state girate) che non aiutano a rimanere nella pellicola. E l'unica cosa che sembra sicura, è il fatto che risulta molto difficile capire cosa volesse dirci Michael Mann nel raccontarci questa storia. Decisamente un gran peccato...
(1) Sentiti ringraziamenti ad A. O. Scott del New York Times, che utilizzò un incipit simile per la sua recensione di Pearl Harbor...