Nel nome della terra, la recensione

Perso in tempi eccessivi di ripresa del quotidiano, Nel nome della terra lascia indietro i suoi personaggi e la tematica sociale

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Dopo aver già raccontato la vera e drammatica storia di suo padre nel documentario I figli della terra, con l’esordio alla finzione di Nel nome della terra il regista francese Edouard Bergeon parla nuovamente delle estreme conseguenze che il progresso industriale e tecnologico ha portato nel mondo contadino contemporaneo: il mondo della sua famiglia da generazioni, il mondo – ormai perduto – di suo padre, dopo il cui dramma ha infatti deciso di intraprendere la carriera di regista. Travolto dai primi anni duemila da processi di globale standardizzazione, il mondo contadino si scontra in modo sempre più drammatico con la spietata spinta modernizzatrice. Qui Bergeon tenta di raccontarlo però quasi esclusivamente dal punto di vista umano, indagando le conseguenze della logica economica sul singolo, sulla sua psicologia, mostrando gli effetti a cascata che questa ha sulla vita privata, sui rapporti interpersonali.

Nel nome della terra è la storia di Pierre (Guillame Canet), che quando negli anni Settanta ritorna nella campagna francese dopo un’esperienza come allevatore nelle pianure del Wyoming, ad attenderlo, oltre alla fidanzata, trova la responsabilità di prendere in mano la fattoria di famiglia Les Grandes Bois. Acquistata la proprietà dal padre, che non vuole fargliela semplicemente ereditare ma sudare come lui stesso ha fatto, nel firmare le scartoffie Pierre firma però anche la sua condanna. Passano infatti gli anni, la famiglia si allarga con l’arrivo dei due figli, che aiutano nel lavoro, ma le strutture sono presto obsolete, le vendite sono sempre meno redditizie e i debiti si accumulano. A poco a poco, anche l’idilliaco quadretto familiare comincia a frantumarsi, isolando sempre di più i suoi membri l'uno dall'altro.

Il dolore sembra una questione innominabile, una vergogna: i personaggi trattengono infatti ogni emozione, non condividono quasi mai l’uno con l’altro le preoccupazioni. Il figlio Thomas (Anthony Bajon), alter ego del regista, fa di tutto per aiutare il padre, vorrebbe prendere in mano la fattoria: la sua sofferenza nel vederlo cadere lentamente nel baratro della depressione non è però mai calcata da Bergeon, che non si autocompiace, ma tuttavia nell’opposto eccesso di sottrazione emotiva manca di far capire davvero i sentimenti che lo animano. Persa la possibilità empatica, allo stesso modo si perdono i rapporti interpersonali tra i personaggi, lasciando indietro gli enunciati discorsi sulla responsabilità generazionale: dal nonno al nipote, la famiglia Jarjeau incarna tre stadi della storia contadina, ma lasciando il conflitto padre/figlio sempre ai margini perde il suo punto di vista sulla vicenda, limitandosi a inanellare uno dopo l’altro momenti di “vita filmata”.

Inoltre, con la terra vera e propria Bergeon sembra voler avere poco a che fare. È infatti soprattutto il declino psicologico di Pierre che, diluito in eccessivi tempi che mostrano i dettagli di vita quotidiana in fattoria, vuole catalizzare l’attenzione nei pur rari momenti di rottura dell’equilibrio. La terra sembra quindi una scusa, un fondale facilmente sostituibile; perso nella bella riuscita visiva e affezionato alla resa documentaristica della routine, il film lascia irrimediabilmente indietro i suoi personaggi. La depressione di Pierre non riflette – come si presume Bergeon vorrebbe – i presupposti sociali annunciati, e perdendo la reale cognizione del perimetro della proprietà (in senso fisico e in senso lato) si perde la consistenza di ogni minaccia esterna.

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