Nel mio nome, la recensione
Quattro persone in fase di transizione sono guardate con grande riserbo senza danneggiare la curiosità del documentarista per le vite altrui
Tutto inizia e finisce con la realizzazione di un podcast, come se la documentazione di Nel mio nome fosse essa stessa un podcast per immagini, uno che racconta la quotidianità di quattro amici di Bologna, in diverse fasi di transizione. Li vediamo insieme e separatamente, nessuno gli chiede di parlare dell’essere persone transessuali in sé, questo non è quel tipo di documentario, anzi, è di quelli in cui ammirare la vita scorrere e ingaggiare un rapporto con le immagini. La tipologia più complicata, quella fondata su un montaggio che sappia aumentare il senso invece che diluire l’interesse. Purtroppo solo a tratti ci riesce.
Certo la maniera di filmare questi giovani uomini nel processo di cambiare è essa stessa una conquista cinematografica, una maniera di rivedere la rappresentazione delle persone transessuali attraverso la lente più italiana possibile, quella dell’unione di personaggi e paesaggi tramite le nuove forme del documentario (non stupisce in questo senso che il film sia andato bene all’estero dopo la presentazione alla Berlinale, sezione Panorama, e che abbia trovato, a lavorazione quasi finita, il contributo di Elliot Page).