Nel mio nome, la recensione

Quattro persone in fase di transizione sono guardate con grande riserbo senza danneggiare la curiosità del documentarista per le vite altrui

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Nel mio nome, in uscita il 13 giugno al cinema

Tutto inizia e finisce con la realizzazione di un podcast, come se la documentazione di Nel mio nome fosse essa stessa un podcast per immagini, uno che racconta la quotidianità di quattro amici di Bologna, in diverse fasi di transizione. Li vediamo insieme e separatamente, nessuno gli chiede di parlare dell’essere persone transessuali in sé, questo non è quel tipo di documentario, anzi, è di quelli in cui ammirare la vita scorrere e ingaggiare un rapporto con le immagini. La tipologia più complicata, quella fondata su un montaggio che sappia aumentare il senso invece che diluire l’interesse. Purtroppo solo a tratti ci riesce.

Niccolò Bassetti fa sicuramente un grandissimo lavoro nel ritrarre la transizione, svicolando tutto ciò di cui il cinema di finzione abusa e trovando un’altra fonte a cui attingere. Lavora su scene quotidiane e mostra il modo in cui medicine, piani, problemi e incertezze della transizione si inseriscono nella vita quotidiana. In questo senso Nel mio nome funziona come un coming of age senza fine, o almeno di cui non vediamo la fine. È il ritratto del processo di maturazione della transizione. Purtroppo non tutte le storie affrontate sono interessanti alla stessa maniera e il documentario sembra incapace di estrarre una narrazione da quelle sequenze. Meglio quando i quattro sono insieme, si confrontano e vivono in questo periodo di passaggio.

Certo la maniera di filmare questi giovani uomini nel processo di cambiare è essa stessa una conquista cinematografica, una maniera di rivedere la rappresentazione delle persone transessuali attraverso la lente più italiana possibile, quella dell’unione di personaggi e paesaggi tramite le nuove forme del documentario (non stupisce in questo senso che il film sia andato bene all’estero dopo la presentazione alla Berlinale, sezione Panorama, e che abbia trovato, a lavorazione quasi finita, il contributo di Elliot Page).

A lasciare più perplessi è semmai la capacità di fare di tutto questo un raccontone-fiume appassionante, di trascinare nelle paure (a tratti) o nell’esaltazione (ad altri tratti) di un momento più che cruciale nella vita dei 4 ragazzi. A parole spiegano come quel che fanno sia il momento che definirà la loro esistenza da lì in poi ma quel senso di hic et nunc, di aver preso nelle mani un intero destino e aver deciso di cambiare tutto nella maniera più radicale sì avverte molto poco a fronte di tante parole che non fanno che lasciare l’acquolina in bocca.

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