Navalny, la recensione
Pedissequo e troppo innamorato del suo soggetto, Navalny è tuttavia un documentario dotato di immagini che nessun altro può vantare
È stupefacente quanto nell’ultimo decennio il cinema e in particolare una nuova forma di documentario militante, sicuramente digitale, sia presente là dove avvengono i fatti di maggiore importanza del nostro tempo e abbia costituito la cronaca più affidabile dei maggiori sovversivi, cioè delle persone che in modo diversi e per ragioni diverse si sono battute contro il sistema, pagandone lo scotto. Risk, che racconta da vicino la parte più clamorosa e concitata della vita pubblica di Julian Assange, Citizenfour, attaccato ad Edward Snowden nei giorni in cui fuggiva dagli Stati Uniti in seguito alla maggior fuga di notizie della sua storia e poi ancora TBP:AFK, il film su cosa è successo ai fondatori e gestori di ThePirateBay. Chi ha raccontato da vicinissimo figure e maniere in cui la cultura globale dal basso si sia battuta contro il potere, è stato il cinema.
Navalny per il resto non è quello che si potrebbe definire un buon documentario, è molto pedissequo e totalmente soggetto al proprio protagonista, lo adora e non è capace mai di dare una lettura degli eventi che non sia l’esaltazione dell’abilità di Alexey Navalny e della stupidità del regime contro cui si batte (ignorando o passando rapidamente sulle questioni più controverse). Nondimeno ha dalla sua la forza di immagini che nessun altro ha, aver filmato quel che per altri è infilmabile. E se non è questo, in un certo senso, il cuore del documentario migliore, non tanto riprende una realtà che domani sarà ancora lì ma aver ripreso l’hic et nunc, il momento irripetibile nel luogo in cui è avvenuto, è difficile dire cosa possa esserlo.