Natale a 8 bit, la recensione

Natale 1988, non si trovano console Nintendo in un paesino di provincia in cui tutti ne desiderano e faranno ogni cosa per averne una

Critico e giornalista cinematografico


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Natale a 8 bit, la recensione

C’è modo e modo di fare nostalgia. La materia in sé è incendiaria, è il massimo del ruffiano e al tempo stesso il massimo del coinvolgente, è l’arma fine di mondo che con molta facilità colpisce un pubblico ampio anche con uno sforzo minimo, il rifugio di chi non ha molti altri mezzi se non fare appello ai sentimenti più semplici. È una melassa così appiccicosa che se prende il sopravvento oscura tutto quello che di interessante può esserci. Ma è anche chiaro che ci sono modi di lavorare sulla nostalgia con stile, di utilizzare quel tipo di affetto facile e di indugio sui ricordi per trovare dentro ogni spettatore qualcosa di universale. Ed è esattamente su questo crinale semplice (ma in realtà complicato, come tutte le cose semplici quando devono essere raggiunte) che si muove Natale a 8 bit, nostalgico e ruffiano già dal titolo, indirizzato al pubblico cresciuto negli anni ‘80.

È la storia di un padre che racconta ad una figlia di quando nel 1988 desiderava ardentemente un NES per Natale, ma i suoi genitori e quelli di tutti i suoi amici non erano intenzionati a regalarlo a nessuno, complice anche una campagna anti-videogiochi. Dovranno tutti lottare per riuscire a trovare una maniera di vincerla, comprarla o rubarne una. Non è un mistero che la ricerca ossessiva di una console diventa poi anche una maniera per raccontare altro, ma innanzitutto Natale a 8 bit non è un film truffa, racconta davvero l’era della videoludica 8 bit e quel modo di vivere i videogiochi come una frontiera, qualcosa di largamente sconosciuto e per nulla ubiquo, anzi, difficili da trovare, reperire, giocare. Tutto in una cornice, anch’essa, anni ‘80, quella di un racconto fatto a qualcun altro (come La storia fantastica, ad esempio), in questo caso un azzeccatissimo Neil Patrick Harris.

Kevin Jakubowski (a scrivere) e Michael Dowse (a dirigere) vengono molto più dalla televisione che dal cinema e si vede, Natale a 8 bit è un film di scrittura e come tale funziona molto bene. Anche la spinta finale obbligatoria su un sentimentalismo familiare natalizio arriva con un’onestà che solitamente non si trova in questi film. E la ragione è che esce dalla sceneggiatura, è organico e sviluppato lungo tutta la storia. Ogni dettaglio, anche l’uso di un ottimo umorismo (mai invadente, sempre originale), lavora non solo sulla gag ma sulla definizione dei personaggi. Soprattutto quelli marginali. Non ridiamo di cosa fanno ma ridiamo di cosa sono e (di nuovo: la nostalgia) del tipo di figura archetipa dell’infanzia che rappresentano.

Natale a 8 bit, cambiando qualche dettaglio, potrebbe essere ambientato negli anni ‘30 o ‘50, tanto riesce a creare figure universali e riconoscibili, grazie ad un grandissimo lavoro di interpretazioni. Siamo abituati ai bambini-attori americani, sempre bravi e a fuoco, ma qui invece che mettere solo in mostra le loro doti si fa un lavoro diverso, creando per ognuno una vera personalità che lavori su stereotipi e archetipi in modo da dare nel complesso il ritratto di un ambiente, un gruppo di persone in equilibrio e, lo capiamo alla fine, dei rapporti tra amici e familiari. E alla fine, di tutta quella nostalgia, non rimane qualcosa di amaro, ma anzi, in modo molto divertente e paradossale, qualcosa di epico.

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