Natale a 5 Stelle, la recensione

Radicale nel suo essere fedele alle radici novecentesche della commedia cui si ispira, Natale a 5 stelle suona oggi datatissimo

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Quando Martina Stella, parlamentare del PD, si presenta sullo stipite della porta della stanza d’hotel del primo ministro 5 stelle (suo amante) in lingerie, parte un sexy sax che dice tutto. Come del resto dice tutto il cappello cilindrico di Biagio Izzo, cameriere avido e impertinente marcatamente napoletano, o il frac del proprietario d’hotel preoccupato e zelante, o ancora il malcelato imbarazzo della cameriera fieramente pugliese che si dice sposata con un pornodivo o ancora l’ampio armadio a diverse ante che campeggia nella camera del primo ministro, pronto ad accogliere moltissime persone.

Siamo nell’ambito della commedia teatrale viennese, quella delle porte che si aprono e si chiudono, del sesso soft molto bramato e ben poco praticato oltre a quello dei continui equivoci che sono tali per i personaggi ma non per gli spettatori.

È un cinema che Enrico Vanzina conosce bene mentre Marco Risi molto meno. Il primo ha scritto Natale a 5 Stelle, il secondo ha sostituito Carlo Vanzina, recentemente scomparso, alla regia salendo in corsa sul progetto e ottenendo un risultato assolutamente in linea: è la commedia per bene in cui si attaccano rigorosamente tutti i partiti politici come in una serata al Bagaglino, puntando su problemi atavici della politica e non contingenti, sui voltagabbana, la corruzione e gli scarsi ideali a fronte di grandi promesse. I politici visti come tutti uguali e sempre uguali a se stessi lungo i decenni a prescindere dallo schieramento, perché burattini di una commedia eterna che non è dei nostri tempi ma affonda nel passato.

A questo punto a contare dovrebbe essere unicamente l’esecuzione e qui non è impeccabile.

Come spesso è accaduto ai film dei Vanzina degli ultimi anni tutto è affidato agli interpreti (che poi è una tradizione del cinema italiano degli anni ‘50 e ‘60 cui loro si rifanno molto), gli attori diventano co-autori di una sceneggiatura di ferro scritta per essere piegata, interpretata e abitata, una che prevede un certo agio come a teatro (è da un’opera teatrale del resto che viene la storia). Pane per i denti della commedia storica italiana e degli anni migliori dei Vanzina. Quando infatti collaborano con Max Tortora, Diego Abatantuono, Vincenzo Salemme, Christian De Sica o Gigi Proietti questo modello funziona e ha funzionato, quando invece ci sono Massimo Ghini, Ricky Memphis e Martina Stella molto meno. Non a caso Biagio Izzo risulta il membro più efficace del cast, l’unico abituato ad adattare la parte alla propria comicità e al proprio mestiere.

Su tutto però la componente che più lascia spiazzati, o meglio che identifica chiaramente il pubblico d’elezione, sono i rapporti tra sessi. Come si propongono gli uomini e come si propongono le donne, come sono guardati e come si guardano vicendevolmente è nella maniera classica, quella che vede l’uomo eternamente arrapato e la donna piena di senso di colpa per un tradimento che desidera e non desidera, mobile e timorosa, in fondo in fondo sempre speranzosa che il suo matrimonio non crolli, la parte che reprime ma in fondo vorrebbe. Dall’altro lato l’uomo mandrillo inventa, crea e plasma scuse e situazioni per circuirla, ingannarla e possederla.

Tutto nel film gira intorno alle questioni maschili, sono gli uomini e i loro obiettivi i veri protagonisti, le donne sono le eterne sorprese, truffate, ingannate e un po’ allocche (perché con la medesima facilità con la quale credono a tutto poi anche si offendono, danno uno schiaffo e vanno via). Unica eccezione Massimo Ciavarro marito leghista geloso. Ma è poco.

Continua a leggere su BadTaste