Narcos (terza stagione): la recensione

La recensione della terza stagione di Narcos: il cartello di Cali raccoglie l'eredità di Pablo Escobar, nel nuovo ciclo di episodi della serie di Netflix

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
La prima e, probabilmente, ultima considerazione da muovere sulla terza stagione di Narcos riguarda l'inevitabile confronto con il suo passato, che qui prende l'ingombrante nome di Pablo Escobar. La scomparsa storica, e quindi anche narrativa, del narcotrafficante più famoso di sempre, apriva una parentesi d'incertezza sul futuro della serie di Netflix. D'altra parte, la prospettiva storico-documentaristica dello show, e il suo successo, spalancavano le porte ad un seguito della vicenda. Da fiume in piena che era, il corpo ora senza vita di Escobar si sfalda, generando dalle sue spoglie una serie di rigagnoli sanguinari che, pur non avendo la portata del loro predecessore, ne raccolgono efficacemente l'eredità.

La prima, sostanziale differenza è l'abbandono della prospettiva unica per concentrarsi sull'organizzazione criminale: il cartello di Cali. I due fratelli Rodriguez, insieme ai soci “Pacho” e “Chepe”, raccolgono il trono lasciato vacante da Pablo Escobar, e assumono il controllo del traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Dall'altra parte della barricata, e principale collegamento con le prime due stagioni dello show, ritroviamo l'agente della DEA Javier Peña, ancora una volta impegnato in prima linea. L'intreccio getta nella mischia una serie di personaggi all'apparenza secondari, che tuttavia assumeranno sempre maggiore importanza, come il capo della sicurezza dei Rodriguez, Jorge Salcedo.

Narcos rimane saldamente ancorato a quella visione di genere che già muoveva le prime due annate della serie. Il contesto da gangster movie richiama una serie di stilemi e necessità narrative che vengono perseguite senza troppi sobbalzi, ma riuscendo a mantenerne la forza propulsiva all'interno di una storia che comunque ha una fortissima identità, linguistica ma non solo. Avremo quindi l'agente che lotta contro un sistema marcio dalla testa ai piedi, il personaggio che fa il doppio gioco e vive con il peso di una famiglia da proteggere, i boss sopra le righe. Tuttavia è proprio qui che Narcos compie la sua scelta più inattesa, forse la più ammirabile.

La serie del “plata o plomo”, divorata dall'interpretazione strabordante di Wagner Moura – a tratti forse rievocata dal “Chepe” di Pêpê Rapazote – fa un passo indietro. Rinuncia ai manierismi di scrittura e di messa in scena, rinuncia a corteggiare quell'area tra l'ammirazione e la riprovazione che sempre esiste nel genere gangster, e presenta dove può una narrazione più asciutta. Perde qualcosa nel farlo, soprattutto nei primi cinque episodi, ma ne guadagna nel lungo periodo. La prima metà di stagione non offre particolari spunti, muove i personaggi, li presenta a partire dai contorni, per scivolare poco a poco verso il loro cuore più intimo. Scelta, ripetiamo, molto particolare.

Eppure, quando il violento finale del quinto episodio segna la cesura più importante della stagione, sappiamo di essere entrati in un gioco più intenso, del quale conosciamo le regole e i giocatori. La stagione a quel punto ha una crescita inarrestabile, presenta momenti di tensione palpabile, esplode dove può e, quando toglie soddisfazione ai suoi “eroi sconfitti”, ci lascia con loro a soffrire. In questo, gli occhi disillusi di Pedro Pascal suppliscono ampiamente all'assenza del collega Murphy. Curiosa, ma gradita, la presenza in apertura e chiusura di stagione di Edward James Olmos, mentre passeranno senza lasciare impatto le apparizioni di Kerry Bishé (Halt and Catch Fire) e Miguel Ángel Silvestre (Sense8).

Il taglio semidocumentaristico, con inserimenti d'epoca, proietta i riferimenti della serie verso l'alto. Non le strade, non quella distribuzione e consumo di cocaina che muove tutto ma di cui in fondo vedremo poco, ma il rapporto simbiotico tra politica e criminalità. Corruzione e compromessi ancora una volta stringono la presa su una Colombia nel sangue e priva di riferimenti. Il personaggio di Pedro Pascal a quel punto appare come l'emblema di un idealismo perduto soffocato dalla realpolitik, lo scoglio che si erge contro la marea, ma destinato a venire sommerso. Una visione, affine al Sicario di Denis Villeneuve, che erode spazio all'anima gangster della serie e la consegna al poliziesco più duro e puro.

Continua a leggere su BadTaste