Narcos: Messico (terza stagione): la recensione
Con la terza stagione di Narcos: Messico, si conclude la saga sul narcotraffico raccontata su Netflix
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Sei anni dopo il lancio della prima stagione di Narcos su Netflix, la saga sul narcotraffico arriva alla sua conclusione. La serie con Wagner Moura aveva contribuito nei suoi primi anni a dare una certa identità alla piattaforma streaming, e si era imposta come uno dei titoli più riconoscibili del catalogo. Oggi, è un titolo fra i tanti, che ha mantenuto una sua coerenza, ma al tempo stesso non ha saputo confermare quel linguaggio forte che trovava un suo senso nella parabola di Pablo Escobar. Narcos: Messico, è allora una nuova parentesi storica, sociale e politica del Messico e delle tante storie di criminalità durante i primi anni '90. Solida come lo erano state le precedenti due stagioni, ma forse non così memorabile.
Non sarà l'unica vicenda criminale raccontata, considerato che qui il principio è quello dell'idra: tagli una testa, ne spuntano altre. Ed ecco quindi che tra i tanti nomi spunterà fuori anche quello di El Chapo (Alejandro Edda). Ognuna di queste considerazioni tuttavia lascia il posto all'aspetto migliore di Narcos: Messico, la visione geopolitica e lo sguardo dalle stanze del potere agli ultimi della società. La storia del narcotraffico, ci dice la serie, è la storia del governo del paese. Non a caso c'è spazio anche per Carlos Hank (Manuel Uriza), eminenza grigia della politica messicana: i governi passano, lui rimane.
Il senso di sconfitta è sempre lì, contrastato saltuariamente dal ritratto di una piccola parte della stampa che cerca di raccontare la verità. Ma è una lotta impari, e la serie con la sua voce narrante si trasforma poco a poco nella cronaca di una sconfitta annunciata. Innumerevoli vite perdute, risorse impiegate, soldi spesi. Ma ciò che davvero permea il tessuto criminale, ancora una volta, dalle stanze del potere fino ai vicoli in cui si consumano gli omicidi, non viene mai davvero scalfito.