Narcos: Messico (seconda stagione): la recensione
Narcos: Messico racconta una nuova tappa del narcotraffico in una stagione solida, ma impersonale
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Una serie come Narcos: Messico, come tutto il genere gangster al quale aderisce, non può fare a meno di corteggiare la grandezza. Delle storie, dei personaggi, delle ambientazioni che narra. Al centro di tutto devono esserci necessariamente grandi uomini che compiono azioni eclatanti, capaci di definire un'epoca. Economicamente, politicamente, socialmente. Stile e criminalità dialogano, e tutto il resto scivola indifferente al dolore e alla morte che quell'incontro produce. Se la serie Netflix può emanciparsi da questo, allo stesso tempo non dà l'impressione di volerlo fare. Così, anche alla seconda stagione, accumula risposte e meccanismi attesi, ma non così coinvolgenti.
Scoot McNairy interpreta l'agente Walt Breslin, che a sorpresa si scopriva essere il narratore della prima stagione di Narcos: Messico. Qui Walt è molto più in scena, logicamente, ma le operazioni in cui è coinvolto insieme ai suoi colleghi solo raramente appaiono come il riflesso di ciò che è giusto fare per vendicare Camarena. Piuttosto, anche loro sono piccole pedine, piccoli soldati in una guerra che muove interessi geopolitici prima che economici, e in cui non c'è spazio per l'idealismo. Una lezione che dall'altra parte Felix sembra aver appreso. Il personaggio interpretato da Diego Luna non è più il piccolo pesce che cerca la scalata, ma è il narcotrafficante che è arrivato, ma che non può smettere di crescere per sopravvivere.