Narcos: Messico 1x01, la recensione

La nostra recensione del primo episodio di Narcos: Messico, in arrivo su Netflix il 16 novembre

Critico e giornalista cinematografico


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La forza di Narcos è che non ha mai raccontato la guerra alla droga, ma sempre e solo la guerra della droga. Nelle sue varie stagioni ha usato il racconto di polizia o federali in lotta contro la produzione e distribuzione di droga, per narrare in realtà un’altra storia quella di criminali che combattono per produrla, per imporla, per sgominare la concorrenza e costruire un impero. Narcos è lontano da ogni buonismo proprio per questo, perché nella storia dell’ascesa dei boss c’è anche la storia di chi l’ha reso possibile, della collusione.

È stato così per le quattro stagioni ambientate in Colombia, a lungo centrate su Pablo Escobar, ed è così da subito per Narcos: Messico, la prima stagione di una nuova serie che si svolge nel medesimo mondo della prima, ovvero il nostro solo scritto molto meglio e con una color correction sui colori caldi.

Già nell’attacco vediamo un atto di guerra alla droga, cioè l’incendio di alcuni campi di coltivazione, che porta ad una guerra della droga (la voglia di una scalata nel mondo criminale). Un pesce piccolo vede un’opportunità e chiede di poter fare un tentativo per rimediare (ma è un ex poliziotto), allo stesso tempo ma altrove un poliziotto si sta fingendo distributore di droga per incastrare dei produttori. Doppio inganno in parallelo, e per almeno tutta la puntata del resto seguiremo in parallelo i cambiamenti nelle vite di questi due personaggi, i protagonisti, che porteranno entrambi a Guadalajara.

È un perfetto episodio pilota che imposta il tono e fa tantissime promesse. Promesse implicite sia nella trama della DEA (l’agenzia che lotta contro la droga), il cui lavoro a Guadalajara è così maldestro che può solo migliorare, sia nel mondo criminale, in cui in una puntata vediamo già una piccola scalata dai risvolti geniali, scritta benissimo.

Rispetto a Narcos qui non ci sono le figure ingombranti e note, tutto gira intorno a Kiki Camarena, poliziotto centrale nel racconto dell’alba della guerra alla droga messicana ma di certo non noto come Ecobar. Michael Peña lo interpreta con una gravitas che raramente gli abbiamo visto sfoggiare. Quieto e ordinario nella vita privata, Camarena ha una forza trattenuta quando lavora che è fantastica, è una tigre che attende, pianifica e trattiene la rabbia. Sta a livelli bassissimi nella DEA e ribolle al vedere quanto male lavori l’agenzia, quanto siano pavidi. Scruta, studia, aspetta e fa piccolissime mosse che portano subito a piccoli risultati. È un coacervo di annunci su quel che vedremo, annunci dati sia con la scrittura che soprattutto tramite questo fantastico attore con il fisico della commedia ma lo sguardo e la presenza da grandissimo dramma.

Dall’altra parte Diego Luna è il fisico smilzo e la faccia d’angelo scelta per raccontare il mondo criminale. Lui spinge uno dei signori della droga da un centro marginale ad una città più grande, per l’appunto Guadalajara, e per farlo si fa mandare in missione solitaria con un piano da applausi. Occhi piccoli e taglio di capelli da Edward Norton, parla pochissimo e cerca la rottamazione del mondo prima di lui. Non è il centro emotivo di questa prima puntata ma ha i dialoghi migliori.

Un po’ qui sta il primo pregio di Narcos: Messico di non riprendere il segreto del successo della serie precedente, ovvero l’illustrazione di un mondo dai contorni sia reali che incredibili, tecniche e soluzioni senza senso di trafficanti così ricchi da fare una vita paradossale. La serie ha sempre puntato sull’esibizione del “fuori scala”, ovvero tutto era talmente difficile da concepire per le proporzioni di armi, soldi, droga, penetrazione e influenza da camminare sempre sul margine della risata anche se non c’era mai nulla davvero da ridere. E questo fin dai primissimi episodi.

Narcos: Messico non si presenta in questa maniera ma come un poliziesco più classico in cui un criminale deve farsi strada con il sangue e un poliziotto (con famiglia a carico) deve rischiare tutto per prendere gli imprendibili, tirare giù dei colossi.

Se le 4 stagioni che abbiamo visto sono state il racconto disumano di un Davide contro Golia visto però dal punto di vista di Golia, questa nuova che parte appare come una serie più convenzionale ma, forse proprio per questo, potenzialmente più appassionante. Narcos: Messico non parte certo come qualcosa di mai visto, non vuole farlo, ma anzi come un versione più classica dei racconti di crimine moderni. E proprio per questo motivo esibisce in maniera meno mascherata, più palese e in un certo senso anche godereccia, la sua ottima scrittura. C’è un piacere per nulla sottile nell’ascoltare i dialoghi di Narcos: Messico, nel sapere che due personaggi si stanno per sedere ad un tavolo e daranno vita ad un duello di parole clamoroso anche se anti-intellettuale. C’è un’ironia fenomenale negli sgherri del boss di Guadalajara, due fratelli uniti da un taglio di capelli incredibile che somiglia a quello di Jim Carrey in Scemo e Più Scemo. C’è infine anche solo in questa prima ora, una grandezza ammirabile nel personaggio odioso ma anche titanico di Don Nedo.

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