Napoli magica, la recensione

Per lunghi tratti racconto (auto)celebrativo, Napoli magica affascina quando abbraccia pienamente la dimensione esoterica

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La nostra recensione di Napoli magica presentato al Torino Film Festival e al cinema il 5/6/7 dicembre

Spesso, essere troppo innamorati, vicini al soggetto del proprio racconto non è un segnale positivo, perché si rischia di diventare troppo imparziali, senza la giusta distanza con cui osservarlo. Questo sicuramente vale anche Marco D'Amore nei confronti della sua città, quella Napoli che mette al centro del suo secondo lungometraggio come regista, dopo aver esordito con L'immortale. L'attaccamento verso di lei e i suoi abitanti è fortissimo e mai verrà messo in discussione nel film, che però sotto la superficie (auto)celebrativa farà riaffiorare in alcuni passaggi un'anima più evocativa e meno scontata.

Svestiti i panni del Ciro della serie Gomorra, D'Amore ritorna dietro e davanti la macchina da presa girando per le strade con l'intenzione di realizzare un documentario sulla Napoli magica, chiedendo ai passanti perché questa dimensione sembra ormai perduta. Seguendolo nel suo percorso scopriamo luoghi poco conosciuti, lontani dagli stereotipi, aneddoti e retroscena sulla Storia e sulle leggende della città, più o meno noti e interessanti, ma soprattutto la gente del posto, che conserva i valori antichi. Raccogliendo varie testimonianze, varie voci su una Napoli "diversa", nascosta nei sotterranei, si susseguono, fino a quando non sarà più possibile ignorarle.

Come Panahi, D'Amore si mette dunque in gioco in prima persona e lascia nel campo dell'inquadratura il meccanismo del "fare cinema", con tutti gli inciampi e difficoltà delle riprese nella "vita vera". Non mancano ironia e quadretti simpatici, come quando la troupe che lo accompagna è restia a recarsi nei luoghi ritenuti più "pericolosi", ma poi si innamora del cibo e del caffè della città. Ancor più del regista iraniano (come racconta Taxi Teheran) D'Amore è ormai volto riconoscibilissimo, e molti gli chiedono di fermarsi in strada per una foto. L'attore/regista sta al gioco ma cerca sempre di non focalizzarsi troppo su se stesso, con l'obiettivo di restituire attenzione all'amata Napoli e ai suoi abitanti, mettendosi nella posizione di ascoltatore e osservatore.

Così, il film scorre per la prima parte un po' inconcludente, nell'attesa di arrivare a quello che il titolo promette. Si resta affascinanti da alcune storie e retroscena, da come la musica gioca un ruolo fondamentale di immersione nella realtà partenopea, dalla vitalità della gente che la anima. Meno da certi passaggi "da cartolina" come campi lunghi sul mare e vedute della città dall'alto, dalle facili metafore e superflue sottolineature verbali di quanto è già chiaro con le immagini. Ma questo non è che l'inizio del viaggio.

Quando il protagonista comincia ad addentrarsi in luoghi più misteriosi, si lascia sedurre dalla dimensione magica e esoterica e di conseguenza anche il film cambia, lascando le vesti del documentario per abbracciare quelle esoteriche e mitologiche. Attraverso balzi temporali improvvisi e squarci onirici prendono vita diverse figure della tradizione, dalla sirena Partenophe a Pulcinella. La dimensione osservativa lascia spazio a quella narrativa, che procede per evocative suggestioni, piccoli spunti, tenendo volutamente alcune questioni e porte aperte. Napoli magica riesce così finalmente a coinvolgere e il discorso trova compiutezza, in un senso pienamente metatestuale. Si sottolinea l'importanza di dare spazio a quello che va al di là del visibile e del comprensibile, come nel tentativo di documentare Napoli sia quest'ultima a prendere le redini del racconto, costringendo a mettere da parte ogni velleità razionalistica. E la scena finale sembra richiamare in maniera ancora più beffarda quella del Il cittadino illustre: è il nostro stesso sguardo a essere messo in discussione.

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