Napoleon, la recensione

Nel più tipico e convenzionale dei grandi film storici Ridley Scott crea uno spettacolo immenso per distruggere il mito di Napoleon

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Napoleon di Ridley Scott, il film Apple nelle sale dal 23 novembre

Poco è cambiato nel cinema storico di Ridley Scott lungo i decenni. È sempre una visione di come grandi uomini sono stati agitati da un senso di predestinazione che in certi casi (Le crociate) prendeva la forma di una presenza spirituale in Terra, perché quella era la cultura dell’epoca, in altri (Il gladiatore) prendeva la forma di sogni premonitori. In Napoleon, ambientato in un’epoca poco spirituale, prende la forma della convinzione profonda di essere al centro del proprio destino che ha Napoleone Bonaparte, artefice di una scalata a cui era destinato. Per Ridley Scott questa figura nasce nella violenza della Rivoluzione Francese, lo mette in piazza a guardare la decapitazione di Maria Antonietta (in realtà era in Corsica all’epoca), cioè lo mette a guardare la violenza del popolo contro le élite come se quello lo nutrisse e accendesse in lui la consapevolezza che una scalata a quel mondo è possibile.

Contrariamente ai grandi scalatori sociali della letteratura francese ottocentesca, il Napoleone di Joaquin Phoenix non ha nessuna delle doti necessarie, e somiglia molto ai personaggi Phoenix. È un nerd incompreso, dotato di abilità fuori dal comune per la guerra, ma privo delle competenze sociali necessarie a farsi accettare. È un uomo antivirile, innamorato perso sempre della stessa donna e in difficoltà quando la ragion di stato gli impone un atto sessuale con un’altra, sconosciuta. Non ha nessuna delle qualità maschili che si attribuiscono ai grandi uomini, anzi è pieno del suo contrario. La prima grande scena di guerra, quella che lo fa diventare generale, serve a mostrarci il contrasto al cuore di tutto, quello tra la sua potenza militare e la sua ansia e insicurezza personali, come se non fosse troppo adeguato alle sue stesse imprese.

Forse non c’è nulla di più iconoclasta di questo: Napoleone visto come un uomo misero, un pacifista bravissimo nella guerra, che in realtà voleva solo fare alleanze ma non ci riusciva perché mai in grado di conquistare umanamente gli altri potenti d’Europa, troppo diverso da loro e troppo più bravo di loro. Goffo anche quando loda le doti militari degli avversari per essere da loro accettato. Eppure al netto delle tantissime concessioni ai veri fatti e alla vera cronaca (che a Scott non è mai interessata), questo non è un film che vuole riscrivere la storia, ma uno con l’ambizione di riscrivere il mito, abbattere il Napoleone classico ed erigerne uno che è un debole di talento.

Per farlo Napoleon imbastisce l’alternanza più convenzionale per un film storico (questo del resto è a tutti gli effetti un film molto convenzionale): quella tra vita professionale (cioè la Storia) e vita privata (ovvero la storia), questioni e problemi ordinari alternati a gesta straordinarie, creando un meccanismo che più che avvicinare Napoleone al pubblico, mostrandolo umano nella grandezza, avvicina il pubblico a lui, mostrando come qualcuno che non è migliore degli altri (e anzi ha esattamente il problema della maggior parte degli uomini contemporanei, quello di faticare ad avere un figlio) era lo stesso in grado di gesta epiche. 

E lì, in quel punto in cui le gesta devono essere epiche, Napoleon trova il suo senso profondo, non nelle paturnie dell’uomo ma nella ricostruzione epico-didascalica delle battaglie, nell’illustrazione eccezionale a mezzo di VFX e comparse, di ciò di cui è capace un essere umano. È una metonimia che vale per Napoleone, che architettò e portò a termine realmente quelle imprese comandando un esercito, ma anche per il regista (e in questo transfer sta tanto del film e della sua trama di mancata accettazione da parte delle élite) che le mette in scena in modi incredibili, con una forza visiva e una capacità d immaginare e poi realizzare fuori dal normale, comandando un esercito di maestranze.

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