Nanny, la recensione
Alla fine dei conti Nanny è un dramma piuttosto confuso che vorrebbe unire il tema della maternità con la critica black dell’american dream: un traguardo tematico che viene solamente suggerito ma che purtroppo Nikyatu Jusu non riesce a raggiungere.
La recensione di Nanny, su Prime Video dal 16 dicembre
Più che dalle parti dell’horror siamo nettamente nella zona del film drammatico d’autore. Inquadrato in questo senso, Nanny è lo studio di un personaggio in una situazione al limite: la regista Nikyatu Jusu pone infatti Aisha, la protagonista, come perno della narrazione e la osserva senza mai distaccarsene mentre questa si occupa quotidianamente della bambina di una ricca famiglia bianca. La tensione orrorifica è declinata in visioni surreali: quelle che cominciano a tormentare i sogni di Aisha, che lavora (sottopagata) senza sosta per riuscire a guadagnare abbastanza per portare suo figlio a New York dal Senegal.
Nanny riesce a caricarsi di ritmo e significato solo nell’ultima parte. Proprio lì dove il film si avvicina all’horror anche il discorso sociale si fa interessante, unendo una regia quasi Argentiana - una fotografia molto bella che usa i colori accessi in contrasto con le situazioni di tensione, l’uso dello zoom - a situazioni e riflessioni che avvicinano sorprendente il film a Saint Omer di Alice Diop, film d’autore-denuncia sulla violenza psicologica delle società occidentali verso gli immigrati, nel film di Diop come studio di una madre immigrata di fronte alla legge francese.
Alla fine dei conti Nanny è un dramma piuttosto confuso che vorrebbe unire il tema della maternità con la critica black dell’american dream: un traguardo tematico che viene solamente suggerito ma che purtroppo Nikyatu Jusu non riesce a raggiungere.
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