Nanny, la recensione

Alla fine dei conti Nanny è un dramma piuttosto confuso che vorrebbe unire il tema della maternità con la critica black dell’american dream: un traguardo tematico che viene solamente suggerito ma che purtroppo Nikyatu Jusu non riesce a raggiungere.

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La recensione di Nanny, su Prime Video dal 16 dicembre

Scritto e diretto da Nikyatu Jusu, Nanny si presenta come un horror. Sebbene il film abbia per protagonista una tata senegalese (Anna Diop) alle prese con una ricca famiglia dell’Upper East Side newyorkese e suggerisca una critica sociale rispetto all’essere neri in America, Nanny tuttavia oltre a ricordare qua e là certe dinamiche di Get Out (che è invece per eccellenza l’horror manifesto della critica black), Nanny di horror non ha proprio niente. Non che questa mancanza sia di per sé un errore: tuttavia dal momento che il film promette un tale quadro di genere - a partire dalle etichette con cui è “venduto” - delude non poco vedere che l’unico momento thriller/ansiogeno di Nanny avvenga a dieci minuti dalla fine.

Più che dalle parti dell’horror siamo nettamente nella zona del film drammatico d’autore. Inquadrato in questo senso, Nanny è lo studio di un personaggio in una situazione al limite: la regista Nikyatu Jusu pone infatti Aisha, la protagonista, come perno della narrazione e la osserva senza mai distaccarsene mentre questa si occupa quotidianamente della bambina di una ricca famiglia bianca. La tensione orrorifica è declinata in visioni surreali: quelle che cominciano a tormentare i sogni di Aisha, che lavora (sottopagata) senza sosta per riuscire a guadagnare abbastanza per portare suo figlio a New York dal Senegal.

Funzionali a suggerire metafore simboliche che alludono a un mistero - legato all’acqua e alla tradizione magica senegalese - queste visioni sono però inserite nella narrazione in maniera randomica. Allo stesso modo pare randomico il modo in cui sono inseriti nella storia gli altri personaggi: la madre della bambina, che mostra un confuso atteggiamento tra l’arroganza di classe e un finto buonismo filantropico (ma che poi non va a parare da nessuna parte), e soprattutto la figura del padre, un fotografo il cui studio è pieno di foto di africani e la cui “passione” di facciata nasconde lo stesso pregiudizio antropologico. Tali posizioni dei personaggi sarebbero di per sé parecchio interessanti - e proprio qua Nanny sembra avvicinarsi a Get Out - peccato che Nikyatu Jusu non le sviluppi affatto, lasciandole semplicemente in sospeso mentre si concentra a mostrarci le stesse dinamiche quotidiane all’infinito.

Nanny riesce a caricarsi di ritmo e significato solo nell’ultima parte. Proprio lì dove il film si avvicina all’horror anche il discorso sociale si fa interessante, unendo una regia quasi Argentiana - una fotografia molto bella che usa i colori accessi in contrasto con le situazioni di tensione, l’uso dello zoom -  a situazioni e riflessioni che avvicinano sorprendente il film a Saint Omer di Alice Diop, film d’autore-denuncia sulla violenza psicologica delle società occidentali verso gli immigrati, nel film di Diop come studio di una madre immigrata di fronte alla legge francese.

Alla fine dei conti Nanny è un dramma piuttosto confuso che vorrebbe unire il tema della maternità con la critica black dell’american dream: un traguardo tematico che viene solamente suggerito ma che purtroppo Nikyatu Jusu non riesce a raggiungere.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Nanny? Scrivetelo nei commenti!

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