My Sunshine, la recensione | Cannes 77

C'è ancora parecchio da aggiustare nello stile di Hiroshi Okuyama, ma My Sunshine è un'opera seconda convincente e poetica.

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La recensione di My Sunshine, il film di Hiroshi Okuyama presentato a Cannes 77 nella sezione Un certain regard.

A soli 28 anni e al suo secondo film Hiroshi Okuyama è un regista che potrebbe andare in molte direzioni. Nel peggiore dei casi vincerà la vena paraventa che a tratti emerge in questo My Sunshine, dovuta a uno stile ancora acerbo che tende ad affidarsi alle soluzioni più "testate" del cinema sentimentale: un bambino protagonista adorabilmente impacciato, un montaggio musicale un po' ovvio, una trama pedagogica che vira prevedibilmente verso una svolta alla L'attimo fuggente - non sono tanto errori, quanto scorciatoie di chi ancora non padroneggia appieno la materia, e quindi non ha la sicurezza di osare; nel migliore dei casi si confermerà (e raffinerà) la gentilezza di tocco di questo doppio sguardo, adulto e infantile, sull'infanzia, le sue promesse e le sue trappole. Che quando funziona convince e commuove.

D'estate Takuya gioca a baseball. D'inverno nella squadra locale di hockey. Non è bravo in nessuno dei due, ma un giorno sensei Arakawa - l'istruttore di pattinaggio artistico che allena le ragazze prima dell'hockey - nota qualcosa in lui e inizia a dargli lezioni gratis. Quella che segue è mezz'ora-quaranta minuti di splendido cinema, lieve come la neve che copre il paesino giapponese dei protagonisti. È la liberazione di un corpo impacciato che si libra dalla sua crisalide, e che l'interpretazione mostruosa del piccolo Keitatsu Koshiyama (attore e pattinatore) affronta in modo obliquo e ironico, dipingendo un protagonista motivato non dall'ambizione ma dalla pura gioia infantile dello scoprirsi bravi in qualcosa, del trovare finalmente un posto nel mondo.

Così My Sunshine istruisce sulla natura multiforme del cinema sportivo, che non deve per forza avere a che fare con la competizione e la work ethic ma può essere anche qualcosa di più delicato ed empatico. Più che il cinema di Hirokazu Kore'eda (che Okuyama cita come ispirazione) l'antecedente potrebbe essere Billy Elliott (2000) col suo inno alla liberazione del corpo maschile dai lacci invisibili delle sue posture obbligate, che naturalmente è anche un discorso politico di area gender. Qui però My Sunshine funziona meno, o meglio (come dicevamo all'inizio) sente il bisogno di rimarcare ciò che nel film funziona meglio quando è implicito.

Non c'era bisogno ad esempio di fare dell'omosessualità di Arakawa un punto di trama più di quello che già esprime l'alternanza di scene fra le lezioni sul ghiaccio e la vita di coppia del sensei. In questo c'è già tutto, la dolcezza, la commozione di un uomo "nascosto" che vede un giovane esprimersi liberamente, l'impossibilità di interfacciarsi apertamente con una società rigidissima dietro la facciata pittoresca. Invece Okuyama gioca sul sicuro facendo esplodere un conflitto che poteva benissimo restare latente, scegliendo una soluzione narrativa naturale ma anche risaputa, e che è al di sotto delle aspettative stabilite dal film. Il talento è evidente, la maturità verrà.

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