My Salinger Year, la recensione | Berlinale 2020

Modellato esplicitamente su Il diavolo veste Prada, My Salinger Year sa conquistare la propria indipendenza e dipingere un ritratto interessante e per niente scontato

Critico e giornalista cinematografico


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MY SALINGER YEAR, LA RECENSIONE

Nato da un romanzo autobiografico che racconta un anno nella vita di una ragazza appena assunta in un’agenzia letteraria e subito alle prese con la gestione problematica di J. D. Salinger, scrittore amatissimo e scomparso dalla vita pubblica da decenni, schivo, irrintracciabile, introvabile e protetto da tutti quanti proprio da quell’agenzia letteraria, My Salinger Year è stato pensato per assomigliare a Il diavolo veste Prada ma dentro di sé si agita un’altra anima, più profonda e inarrestabile.
Sigourney Weaver fatica tantissimo a non ricalcare Meryl Streep (la scena in casa, dimessa è davvero di ingiustificabile somiglianza per interpretazione, toni e presentazione), Bryan F. O’Byrne svicola come può il ruolo di Stanley Tucci mentre Margaret Qualley ha una silenziosa permeabilità che nulla ha a che vedere con quella di Anne Hathaway.

Muovendosi dalla moda alla letteratura il film di Philippe Falardeau (già autore di The Breed) ha una grazia invidiabile nel toccare tutti i punti e rispondere a tutte le richieste della produzione. È sufficientemente prevedibile, sufficientemente sfacciato, sufficientemente tenero e sufficientemente romantico. Disegna una protagonista carina e dalla vita intellettuale vivace ma mai davvero lontana dallo spettatore potenziale, e celebra con la consueta sudditanza la letteratura e la passione per la scrittura. Insomma è commercialmente intoccabile.
Lo stesso ha dentro di sé un equilibrio narrativo e alcune idee non comuni che lo rendono di certo non più inesorabile del suo modello (Il diavolo veste Prada, nel cinema recente, è inarrivabile per classicismo hollywoodiano, teatralità delle interpretazioni e gioia di vivere) ma più sofisticato.

Con aspirazioni modeste ma una capacità tutta sua di andare al punto, scrivere bene anche i personaggi marginali e mettere in scena il classico senza farlo mai suonare già sentito, My Salinger Year racconta una sete insaziabile. Se Il diavolo veste Prada era in tutto e per tutto simile ad un film militare del mondo capitalista, in cui dopo un training sfiancante con un sergente istruttore terribile i soldati sono pronti a tutto, corpi speciali dell’economia più avanzata e letale del mondo, in questo film il training di ferro della protagonista non la prepara a nulla, non inserisce una lavoratrice in più o un’agente letteraria in più nel mondo dell’editoria, ma parla della forza della scrittura a tutti i livelli, dai romanzieri alle persone comuni passando per gli aspiranti scrittori, del narcisismo ad essa legato e delle parti migliori di questo narcisismo.

È evidente che l’espediente della presenza/non-presenza di Salinger sia come il sale che viene sparso non appena il sapore langue (una furbata non da poco non mostrarlo mai in viso), ma è pur vero che assodato che quella figura è la bussola morale del film, quello che capita a Joanna, la maniera, i toni e la circospezione con cui lo affronta sono di invidiabile misura, e clamoroso significato.

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