Munich

1972. In seguito all’uccisione di un gruppo di atleti da parte di terroristi palestinesi, i vertici di Israele decidono di organizzare una rappresaglia e di eliminare i mandanti dell’operazione. Anche se con qualche sbavatura, si tratta del miglior film di Spielberg da molti anni a questa parte...

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Si potrà pensare quello che si vuole di Steven Spielberg, ma certo non è un regista banale. Dopo aver realizzato, negli ultimi anni, alcuni dei suoi film più brutti (La guerra dei mondi, Minority Report) o più deludenti (A.I.), se ne esce con un progetto del genere. Avevamo pensato tutti, all’inizio, che un soggetto simile fosse stato scelto per la corsa agli Oscar. Dopo aver visto il film, direi che questo non era l’obiettivo principale. Spielberg infatti limita al massimo i sentimentalismi e le scene ad effetto, con una maturità espressiva a tratti stupefacente, ma che forse va troppo oltre il gusto medio di chi premia i film. Mi riferisco soprattutto alla prima mezz’ora. Ci viene mostrato il sequestro degli atleti, visto soprattutto dal punto di vista dei mezzi di informazione, con un montaggio fantastico tra rapitori, giornalisti e pubblico. In seguito, entriamo nelle riunioni del potere, in cui vengono presentati i diversi punti di vista relativi alla rappresaglia pianificata da Israele in maniera molto matura e coraggiosa. Nel mezzo, vediamo la fase del sequestro e dell’uccisione dei primi due atleti, proposta con un’intelligenza fenomenale. In questi casi, si rischia spesso di mostrare troppo o troppo poco, ma, in quella che è la sequenza migliore del film, Spielberg è semplicemente perfetto. Insomma, si tratta forse del miglior inizio di sempre per un film di questo regista, superiore anche a quello di Salvate il soldato Ryan (che era di grande impatto, ma non aveva questa varietà espressiva).

Poi, dopo questa mezz’ora quasi miracolosa, iniziano i problemi. Che, sostanzialmente, sono collegati alla struttura della sceneggiatura, che da quel punto dedica troppo tempo ad una serie di uccisioni non fondamentali, se non dal punto di vista della suspense hitchcockiana (tutta la sequenza con la bambina segue perfettamente la lezione del maestro inglese). Peraltro, quello che non convince del tutto è il modo in cui questo gruppo agisce. Francamente, non si ha l’idea di uomini ultraprofessionisti, addestrati per uccidere in maniera scientifica (e, per quanto riguarda lo sviluppo di un personaggio, quest’impressione è decisamente confermata) e in grado di portare a termine un compito così difficile. L’impressione è che si voglia umanizzare questi assassini (non è un’opinione morale, semplicemente un dato di fatto), mostrandoceli incerti e, a tratti, molto ingenui, ma è difficile giudicare, non avendo letto il libro su cui si basa il film e non sapendo quindi se si tratta di un ritratto veritiero (anche se inverosimile) o una scelta cinematografica autonoma. Resta il fatto che alcune scelte (penso per esempio all’ultima missione), lasciano molto perplessi.

Per fortuna, la pellicola ritorna sui giusti binari, quando compie un’apparente (ma in realtà fondamentale) digressione, portandoci a scoprire meglio il mondo dello spionaggio internazionale e presentandoci, con pochi tocchi sapienti, un personaggio affascinante e carismatico (interpretato da un ottimo Michael Lonsdale). E creando un clima che non sarebbe certo dispiaciuto a Le Carré, in cui distinguere tra buoni e cattivi non solo è difficile, ma forse anche impossibile e inutile.
Da circa metà film, poi, il gruppo diretto dal personaggio di Eric Bana tira fuori le cose migliori. Emergono i contrasti tra loro e soprattutto le opinioni diverse su come condurre la missione (“voi soldati avete paura dell’immobilità”, è una delle frasi più intelligenti della pellicola), grazie anche ad un cast in ottime condizioni di forma.

Peraltro, non si possono che applaudire i chiari riferimenti al cinema americano degli anni settanta, sia nella fotografia di Janusz Kaminski, che in alcune scene (tra cui una che è un chiaro omaggio al finale de La conversazione). E, soprattutto, per una volta Spielberg non crolla sul finale, evitando sentimentalismi e facili scorciatoie buoniste. Anzi, prima ci mostra, grazie ad un montaggio magnifico, tutto lo stato di disperazione ed ossessione del protagonista. E poi, in un finale molto più duro di quello che sembrerebbe a prima vista, ci spiega (anche se insistendo eccessivamente nell’ultima inquadratura) l’attualità di una storia di più di trent’anni fa.

Difficile capire le polemiche politiche che circondano un film così intelligente ed equilibrato. Ma anche difficile capire come mai Munich sia stato sostanzialmente ignorato dai premi cinematografici fino ad ora. Speriamo (ma senza contarci troppo) che gli Oscar facciano giustizia…

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