Munich
1972. In seguito all’uccisione di un gruppo di atleti da parte di terroristi palestinesi, i vertici di Israele decidono di organizzare una rappresaglia e di eliminare i mandanti dell’operazione. Anche se con qualche sbavatura, si tratta del miglior film di Spielberg da molti anni a questa parte...
Poi, dopo questa mezz’ora quasi miracolosa, iniziano i problemi. Che, sostanzialmente, sono collegati alla struttura della sceneggiatura, che da quel punto dedica troppo tempo ad una serie di uccisioni non fondamentali, se non dal punto di vista della suspense hitchcockiana (tutta la sequenza con la bambina segue perfettamente la lezione del maestro inglese). Peraltro, quello che non convince del tutto è il modo in cui questo gruppo agisce. Francamente, non si ha l’idea di uomini ultraprofessionisti, addestrati per uccidere in maniera scientifica (e, per quanto riguarda lo sviluppo di un personaggio, quest’impressione è decisamente confermata) e in grado di portare a termine un compito così difficile. L’impressione è che si voglia umanizzare questi assassini (non è un’opinione morale, semplicemente un dato di fatto), mostrandoceli incerti e, a tratti, molto ingenui, ma è difficile giudicare, non avendo letto il libro su cui si basa il film e non sapendo quindi se si tratta di un ritratto veritiero (anche se inverosimile) o una scelta cinematografica autonoma. Resta il fatto che alcune scelte (penso per esempio all’ultima missione), lasciano molto perplessi.
Da circa metà film, poi, il gruppo diretto dal personaggio di Eric Bana tira fuori le cose migliori. Emergono i contrasti tra loro e soprattutto le opinioni diverse su come condurre la missione (“voi soldati avete paura dell’immobilità”, è una delle frasi più intelligenti della pellicola), grazie anche ad un cast in ottime condizioni di forma.
Peraltro, non si possono che applaudire i chiari riferimenti al cinema americano degli anni settanta, sia nella fotografia di Janusz Kaminski, che in alcune scene (tra cui una che è un chiaro omaggio al finale de La conversazione). E, soprattutto, per una volta Spielberg non crolla sul finale, evitando sentimentalismi e facili scorciatoie buoniste. Anzi, prima ci mostra, grazie ad un montaggio magnifico, tutto lo stato di disperazione ed ossessione del protagonista. E poi, in un finale molto più duro di quello che sembrerebbe a prima vista, ci spiega (anche se insistendo eccessivamente nell’ultima inquadratura) l’attualità di una storia di più di trent’anni fa.