Mulan, la recensione

Affidato a un team produttivo interamente americano, Mulan ambisce a imitare i wuxiapian cinesi ma finisce per essere una parodia del genere

Critico e giornalista cinematografico


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Ci vuole davvero tanto tanto amore per Mulan, il film originale, per digerire Mulan, il remake in live action.

La Disney stavolta ha scelto la strada di una buona fedeltà alla trama (non è come Dumbo o Alice in Wonderland, che raccontano altro, e nemmeno come Il re leone, cioè una copia carbone) stravolgendo lo stile. Quello che era un classico film del Rinascimento Disney, cioè una storia di principesse ribelli in cerca di una vita propria e in fuga da quello che la società si aspetta da lei, diventa un wuxiapian.

Un pessimo wuxiapian.

Una volta tanto la retrocessione da film per le sale a film per lo streaming su Disney+ (almeno nella maggior parte dei mercati, Cina ovviamente esclusa) suona appropriata. Le vere ragioni sono tutte economiche e non di contenuto, tuttavia vedendo questo nuovo Mulan, diretto dalla regista di La donna di Varsavia e scritto da alcuni degli sceneggiatori della saga del Pianeta delle Scimmie, si fa fatica a non avere l’impressione che sia un cugino minore di tutto quel che vorrebbe essere. Di certo non è una favola Disney. Sicuramente non è un vero wuxiapian. Assolutamente non è un film che fa da ponte fra culture diverse. È semmai una brutta copia di quel che negli Stati Uniti hanno visto arrivare dalla Cina, una parodia della stilizzazione che dà un senso a quei film e inevitabilmente, anche se di certo non era l’intenzione (anzi!), un po’ offensivo. Come se davvero quel cinema cinese si riducesse a questo.

Fin dall’inizio l’idea è di imitare quell’azione fatta con i cavi (attori imbragati che vengono sollevati con i cavi per simulare salti leggeri e incredibili) ma senza fare quello sforzo, senza usare sempre veri cavi, sostituendoli con una computer grafica che aggiunge pesantezza e leva eleganza.

Un disastro.

E poi prosegue con una povertà di idee e di messa in scena che ha il compito ingrato di simulare il contrario, cioè una ricchezza di idee. Il risultato sono ralenti con le polveri colorate che volano in aria, piccole evoluzioni e ampie panoramiche, tutte idee prese in prestito da altri, in un campionario elementare di cosa costituisce un wuxiapian. E quanto di peggio, visto il genere, Mulan fallisce tutte le scene di arti marziali in un eccesso di noia senza nessuno stupore o invenzione, come se la sua idea di wuxia fosse agitare personaggi e abiti invece di creare nuove combinazioni di colori, musica e grazia dei movimenti.

Non va meglio con gli attori.

Con l’esclusione del gigantesco Ma Tzi (il padre di Mulan, già amato nel meraviglioso The Farewell - Una bugia buona e presente di sfuggita in Arrival), il il cast non ha mai l’intensità prossima al teatrale che richiedono gli eventi, gli scenari e il genere. Anche Donnie Yen e Jet Li (l’eroe dei wuxia di Zhang Yimou, qui truccato come l’imperatore), due colossi delle arti marziali, sono usati al minimo delle potenzialità. Addirittura a Donnie Yen è concesso il contentino di un piccolo assolo che non soddisfa nessuno. E del resto nessun timore incute Jason Scott Lee (truccato come il Jason Momoa cinese) nei panni del villain Bori Khan.

Scritti con molta più superficialità e interpretati con il minimo della corposità (basta vedere il confronto con l’intensità di Ma Tzi, clamoroso anche immobile, sentimentale e sincero, perfettamente dentro il genere), i personaggi hanno meno carattere e si fatica a distinguerli dalla folla. Specie i due protagonisti. Incapace di giungere all’astrazione pazzesca dei veri wuxia, di certo lontano dallo stile Disney, Mulan è un ibrido noioso e un po’ stucchevole.

Mulan sarà disponibile da domani su Disney+ con accesso VIP premium.

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