Mr. Harrigan's Phone, la recensione

Con un immaginario kinghiano aggiornato ai primi anni 2000, in Mr. Harrigan's Phone tutto è corretto, ma nulla è sorprendente

Condividi

La nostra recensione di Mr. Harrigan's Phone, disponibile su Netflix dal 5 ottobre

C'è nuovamente un telefono al centro delle vicende del secondo adattamento di un racconto kinghiano targato Blumhouse uscito in pochi mesi. Come in Black Phone (scritto dal figlio di Stephen, Joe Hill, ma con molti aspetti che richiamano la produzione del padre), anche in Mr. Harrigan's Phone, nella casa del personaggio del titolo, compare un vecchio telefono fisso nero attaccato al muro, ma quello a cui fa riferimento quest'ultimo film è il primo modello di iPhone, appena uscito sul mercato. Arrivati nel 2008, la diffusione di questo prodotto e le sue conseguenze, viene innestata in una cornice imbevuta dell'immaginario del celebre scrittore e di quello che colleghiamo solitamente agli anni '80. Così, se da una parte abbiamo la tipica ambientazione (prevalentemente autunnale) in una cittadina del Maine, l'assenza di una figura genitoriale (in questo caso la madre) per il giovane protagonista, che si muove cavalcando la sua bicicletta, o i tradizionali balli scolastici, ora i vari gruppetti di amici si creano a seconda che si abbia o meno il nuovo dispositivo della Apple e anche i bulli prendono di mira i compagni che stanno al passo coi tempi. Ma se la vecchia tecnologia può essere salvifica, quella moderna non può che essere fonte di paura.

In Mr. Harrigan's Phone, l'adolescente Craig diventa amico dell'anziano e ricco signor Harrigan, tramite sedute settimanali in cui gli legge interi romanzi. Queste vanno avanti per diversi anni, finché il giovane regala a Harrigan un cellulare, che presto cattura la sua attenzione, scavalcando l'interesse letterario. Quando l'uomo muore per cause naturali, il ragazzo ripone l'iPhone nella sua bara, ma continuerà a ricevere messaggi e chiamate da questo, decidendo di continuare la conversazione, fino a drammatiche conseguenze, già anticipate dalla voice over del protagonista in apertura.

La prima parte del film è incentrata prevalentemente sul rapporto tra i due, delineando per Craig un percorso di crescita (altro tipico stilema kinghiano) che lo conduce a una fascinazione verso il male, alla necessità di vendicarsi contro "i malvagi", richiamando un 'altro celebre racconto dello scrittore, Un ragazzo sveglio. Ma se in quest'ultimo l'adulto era esplicitamente un nazista, Harring rimane un personaggio misterioso, dal passato oscuro che rimane tale. Così il film gioca per lungo tempo con un'atmosfera sospesa, reggendosi sul personaggio mefistofelico interpretato da un Sutherland che cattura senza strafare, per poi far emergere i propri limiti quando questo esce di scena.

Ancora una volta, la produzione Blumhouse (come anche nel caso di Firestarter, altro adattamento da Stephen King uscito quest'anno) garantisce sempre un risultato discreto, ma che, per quanto riguarda Mr. Harrington's Phone, non va oltre, per una serie di motivi. Il regista John Lee Hancock, alla prima incursione in campo horror, ricorre ad una messa in scena diligente del testo di partenza con tutta una serie di stilemi ricorrenti, come una fotografia giocata sempre su tonalità scure, la cura delle scenografie, l'onnipresente e inquietante accompagnamento musicale. Ma poi manca di quell'inventiva e carattere a livello registico, che, come nel caso di Scott Derrickson per Black Phone, riusciva a dare personalità a un'intreccio non certo originale e accattivante di per se, nel proporre un immaginario consolidato senza sfruttare le diverse potenzialità che questo offriva (come la casa del protagonista che non diventa presenza sinistra ma rimane sullo sfondo, inquadrata senza mai darne risalto). Né Hancock si trova poi a suo agio nella dimensione da thriller sovrannaturale che prende il sopravvento nella seconda parte, con alcune svolte ampiamente prevedibili per quanto riguarda la dimensione spettrale della comunicazione contemporanea.

Qui poi il peso cade tutto su Jaeden Martell (Craig), che non riesce a infondere quel carattere complesso, teso tra l'attrazione/repulsione verso Harrigan e i suoi insegnamenti, che avrebbe richiesto il suo personaggio. E alla fine non aiuta neanche uno scioglimento che piuttosto che favorire la tensione preferisce fare leva su una morale sull'uso della tecnologia sempliciotta e una redenzione del protagonista che, seppur nuovamente in linea con la poetica di King, sembra vanificare l'ambiguità precedente.

Continua a leggere su BadTaste