MPH, la recensione

Abbiamo recensito per voi MPH, miniserie di Mark Millar e Duncan Fegredo edita in volume da Panini Comics

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Cosa faresti se, semplicemente ingerendo una pillola, avessi come per incanto dei superpoteri, nello specifico supervelocità, per una durata di ventiquattro ore consecutive? E cosa faresti se di queste pillole ne avessi un intero flacone? Cosa faresti se fossi l'unico umano con abilità metaumane sul pianeta?

È questa la premessa di base di MPH, una delle più recenti opere scaturite dalla scaltra e potente mente dello sceneggiatore britannico Mark Millar, che da un po' di anni a questa parte, abbandonati le case editrici major, ha creato una sua etichetta Millarworld che sforna ogni anno titoli blockbuster di grande successo, e, va detto, di qualità sempre molto buona. Del resto, perché lavorare per altri quando facendolo per te stesso hai maggiore successo (e introiti), dato che ogni cosa che la tua immaginazione partorisce vende tanto e viene opzionata per un adattamento cinematografico o televisivo ancora prima dell'uscita? (N.B. Per il lettore più pignolo, sappiamo bene che Millar sta lavorando a Empress con Stuart Immonen per la sotto-etichetta Marvel denominata Icon, che però è sempre creator-owned.)

In MPH, Millar continua la sua mission preferita, quella di riplasmare la figura del supereroe classico dei fumetti (più di quelli DC Comics che di quelli Marvel) secondo la sua visione, ossia quella di uno scrittore capace che è prima di tutto un vorace nerd divora-fumetti. Del resto, è ciò che l'autore fa sin dai tempi di Wanted - Il crimine paga (opera meravigliosa deturpata da un adattamento cinematografico orrendo), e che è poi proseguita con la trilogia di Kick-Ass, Superior, Nemesis, e altri ancora. A dire il vero, bisogna riconoscere che lo stesso Millar è stato in grado di operare delle importanti rivisitazioni del tòpos supereroico anche in ambito mainstrem, con opere come Civil War e Old Man Logan, edite dalla Casa delle Idee. Tornando a MPH, in questo caso lo sceneggiatore racconta la sua versione di Flash, il Velocista Scarlatto della DC Comics, narrando una storia di un ragazzo normale, appartenente alla classe sociale americana più svantaggiata e dimenticata dalle istituzioni, che si trova a essere velocissimo da un giorno all'altro.

Roscoe Rodriguez è nato e cresciuto a Detroit, e si trova (nel 2014) a vivere il momento drammatico che tanti hanno vissuto e stanno tuttora vivendo nella città americana simbolo per eccellenza della crisi economica mondiale scoppiata a cavallo tra il 2007 e il 2008. La capitale della contea di Wayne, principale centro dello Stato del Michigan è infatti stata il centro nevralgico del crollo dell'industria automobilistica statunitense, che proprio a Detroit aveva il suo cuore pulsante. Da allora, la città è stata progressivamente abbandonata da una buona fetta di popolazione, e vi sono ancora delle zone completamente abbandonate a se stesse, con fabbriche ed edifici che sembrano usciti direttamente da un set cinematografico di una città fantasma (recuperate il piccolo gioiello cinematografico Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmush per farvi un'idea). Un ragazzo senza particolari titoli di studio, risorse economiche, abilità o "santi in paradiso" ha poca scelta, a Detroit, se non quella di darsi al crimine. Ed è proprio quello che accade a Roscoe, che però viene incastrato e sbattuto al fresco. Qui, per caso, prova una misteriosa droga chiamata MPH, che gli conferisce l'abilità di essere più veloce del suono, e potenzialmente anche della luce, stessi poteri che nel 1986 aveva avuto l'unico superumano mai apparso in questo universo narrativo, di nome Springfield, la cui carriera fu piuttosto breve. Con questa abilità, Roscoe ha finalmente la possibilità di avere il suo momento, il suo riscatto che potrebbe dare la possibilità, a lui e ai suoi cari, di realizzare il suo personalissimo sogno americano. Ma ogni cosa ha un suo prezzo, e i protagonisti dovranno scegliere se essere criminali (sebbene "alla Robin Hood") o provare a essere qualcosa di più.

Inutile cercare di asserire il contrario, a dispetto dei suoi (tanti) detrattori, Mark Millar è uno sceneggiatore di fumetti di Seria A, senza "se" e senza "ma". E in MPH lo dimostra, di nuovo e per l'ennesima volta. L'autore confeziona un'altra miniserie, con un inizio e una fine puntuali, priva di buchi narrativi, scorrevole, sempre interessante e a tratti persino esaltante. Quelle di Millar sono storie tipicamente supereroiche poste in un contesto narrativo più ordinario e grounded. Quelle di Millar sono storie che ogni lettore nerd affezionato al genere ha sempre piacere di leggere. Quelle di Millar sono storie originali che però rimangono fedelmente in un preciso canone narrativo. Niente di rivoluzionario insomma, ma rivisitazioni intelligenti, fatte con cognizione di causa, e con uno storytelling moderno e dal taglio molto cinematografico, che è poi quello che il mercato chiede, alla fine. In questo caso, inoltre, abbiamo un finale davvero pregevole (forse vagamente intuibile sin dal principio, specie per chi, come i fan di Flash sa che, quando si gioca con la supervelocità, lo si fa anche con lo spazio/tempo) che chiude la storia in maniera francamente perfetta, oltre a una precisissima contestualizzazione storico-sociale, sia presente che passata.

Millar è uno sceneggiatore che ama collaborare con disegnatori di indubbio talento e notorietà, spesso caratterizzati da uno stile di disegno improntato al realismo. Era successo con J.G. Jones, era successo con Steve McNiven, sta succedendo con Stuart Immonen, e, nel caso di MPH, è successo con Duncan Fegredo, artista che ha legato il suo nome a Hellboy e Lucifer, tra le altre cose. In questa occasione, Fregredo compie un lavoro egregio, disegnando tavole di pregevole fattura, curate nei minimi, infinitesimali dettagli, in ognuna delle pagine della storia, e non lesinando una sfumatura pop al suo registro di disegno, particolarmente evidente nelle copertine degli albi originali (raccolte nel volume).

In conclusione, MPH è la storia di Flash che non leggerete mai (per ovvie ragioni), ma che potete leggere. Grazie a Mark Millar, ovviamente.

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