Mozart in the Jungle (seconda stagione): la recensione

Tra un "maestro" e un "fortissimo", la seconda stagione di Mozart in the Jungle continua a convincere con eleganza e personalità

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Se la prima stagione di Mozart in the Jungle intesseva uno stretto rapporto tra musica e metropoli, lo stesso ben sottolineato dall'ispirato titolo della serie, il secondo atto della sinfonia di Amazon Studios sposta ancora di più il focus sui personaggi piuttosto che sull'ambiente in cui si muovono. Il risultato non è così incisivo come lo scorso anno, manca l'importante elemento di novità e le motivazioni dei singoli protagonisti appaiono più sfumate, ma ad una serie così leggera, piacevole e dalle pretese non eccelse non si vuole chiedere nulla di più. Ancora una volta, tra un "maestro" e un "fortissimo", la serie funziona.

Siamo ancora una volta a New York, anche se nel corso della stagione ci sposteremo addirittura in Messico, e ancora una volta seguiamo le vicende personali e professionali – più queste ultime – degli orchestrali della Filarmonica della città. Diretti dal maestro Rodrigo De Souza (un ispirato e sempre adorabile Gael Garcia Bernal) i musicisti dovranno barcamenarsi come al solito tra un Beethoven e un Haydn, mentre saranno messi a dura prova dalle più terrene minacce di licenziamenti e tagli di finanziamenti. Il punto di vista privilegiato rimane come lo scorso anno quello dell'oboista Hailey (Lola Kirke), mentre per forza di cose è più defilato il ruolo dell'ex maestro Pembridge (Malcolm McDowell).

Nel suo essere una serie piccola e invisibile, Mozart in the Jungle può permettersi di perseguire quelle strade che altri progetti non seguono, che non la faranno mai uscire dalla sua nicchia, ma che le permettono di distinguersi. Nel loro progetto, i curatori Roman Coppola e Jason Schwartzman (quest'ultimo torna come interprete e regista) non seguono il canonico ritmo delle storie seriali. La continuity c'è, ma al tempo stesso è molto sfumata, i conflitti esistono, ma non sono mai un gancio per tenere in sospeso il pubblico, sono piuttosto un contenitore per giocare con i personaggi, dar loro qualcosa da fare prima che il prossimo tema classico torni a risuonare sullo sfondo.

Qualcuno muore, qualcuno si innamora, qualcuno sogna e viene schiacciato dalle sue aspirazioni, ma non sono queste le immagini fondamentali, quelle che rimangono dopo la visione. Mozart in the Jungle è lo sguardo incantato da bambino di Rodrigo mentre dirige l'orchestra, è la risata di Hailey, è la piccola soddisfazione nel riconoscere una famosa partitura e la curiosità di approfondire quelle invece sconosciute. E lo è ancora di più in un anno in cui, come detto, la sinfonia metropolitana (lo scorso anno facevamo un paragone con i titoli di Manhattan di Woody Allen) lascia il posto ad uno sguardo più vicino ai protagonisti e in cui l'episodio migliore, "Touché Maestro, Touché", non racconta nient'altro al di fuori di una normale serata di divertimento degli orchestrali.

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