Mother/Android, la recensione

In uno spunto distopico e un cuore da survival movie, Mother/Android fa prevalere il versante intimistico, ma banalizzandolo del tutto

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Per una giovane donna, la gravidanza può diventare il banco di prova per mettere in discussione sé stessa e la relazione con il compagno. Per raccontare questa dinamica, Mother/Android ricorre a uno sfondo fantascientifico/thriller: in un futuro non troppo distante, gli umani hanno creato dei robot da usare come schiavi. La viglia di Natale, nello stesso momento in cui Georgia (Chloë Grace Moretz) scopre di essere incinta, all’improvviso inizia la ribellione delle macchine, con l’obiettivo di sterminare tutta l'umanità. Nove mesi dopo, la ragazza, insieme al padre del nascituro (Algee Smith), fugge nei boschi per cercare di raggiungere Boston da dove dovrebbe partire una nave che traghetta verso sponde sicure dell’Asia le famiglie con bambini di età inferiore ad un anno.

Ad un incipit distopico dal forte impatto, segue dunque un survival movie in un mondo post apocalittico: la prima parte del film è intrigante, per come ci introduce in un clima di pervasiva claustrofobia, in cui anche negli interni si fa fatica a respirare, e crea attesa per come proseguirà la narrazione. C’è il dramma di partorire in un mondo in preda al caos (come in Frontiers - Ai confini dell'inferno), c’è la necessità di camminare senza farsi sentire da una minaccia all’inizio invisibile (come in A Quiet Place II) ma rispetto ai film citati Mother/Android ricorre allo spunto di partenza come pretesto per concentrarsi sulle dinamiche di coppia, i conflitti e le incomprensioni che emergono di fronte all'urgenza di crescere un figlio. Facendo così prevalere il versante intimistico a quello di tensione, e procedendo a rilento, la storia prosciuga quanto imbastito in precedenza e perde qualsiasi motivo d'interesse risultando banale, protratta oltre ogni misura e basata sui più facili strumenti di messa in scena e di presa emotiva sullo spettatore.

Mother/Android si pone dunque prima di tutto come una parabola di sofferenza e resilienza femminile, con una figura che si mostra caparbia nel procedere a testa alta contro tutte le avversità. Mattson Tomlin (sceneggiatore di Project Power, qui all’esordio come regista) fissa spesso l'inquadratura sul volto della protagonista, mettendo fuori fuoco quello che la circonda, per trasmetterci il suo senso di asfissia e il suo spaesamento tramite repentini tagli di montaggio o movimenti di macchina. Non basta però un primo piano e due note di musica lirica per scavare dentro un personaggio: le lunghe parentesi in cui guarda l’orizzonte del mare, o maneggia una vecchia macchina fotografica nella speranza di immortalare la sua futura famiglia, sono del tutto superflue. E poi, in maniera molto convenzionale, la sceneggiatura ricorre nei dialoghi tra i partner a esplicite dichiarazioni e frasi a effetto (come: "Sai, avrei dovuto lasciarti!"), che evidenziano quello che già la storia aveva reso ben chiaro. Spostando l’ago della bilancia su Georgia, si finisce inoltre per mettere in ombra il suo compagno. Le sue opinioni e decisioni, che a buon grado ci possono apparire sensate, si rivelano sempre quelle più sbagliate: una presa di posizione fin troppo schierata e uno schematismo molto ingenuo, che ci conduce a un (pre)finale del tutto prevedibile.

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