Mortal Kombat, la recensione

Il videogioco viene narrativizzato di nuovo e questa volta tramite le dinamiche dei cinecomic. Ma Mortal Kombat è ancora fermo agli anni '90

Critico e giornalista cinematografico


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Mortal Kombat, la recensione

Quando i personaggi entrano in scena dicendo il proprio nome con enfasi, mentre un carrello a stringere si avvicina a loro per dargli ancor più epica, sai di essere con tutti e due i piedi negli anni ‘90. E del resto è quello il mondo da cui viene Mortal Kombat, la serie di videogiochi come il primo film di cui questo è un reboot nostalgico, cioè un reboot che non vuole cambiare poi tanto, innamorato della burina semplicità di quello, genuflesso di fronte alla sua primitiva ignoranza manifestata in primis dal tema musicale originale.
Mortal Kombat del 2021 è letteralmente il proseguimento logico (ma non di trama) di quello del 1995, solo con 25 anni in più di esperienza nel settore e nell’evoluzione del genere.

Un campione di arti marziali miste scopre di essere uno dei prescelti per il Mortal Kombat, temibile torneo in cui i campioni della Terra sfidano quelli dell’Outworld con in palio una posta esageratamente grande. Mortal Kombat è un videogame quasi per nulla narrativo, dunque i suoi elementi chiave vanno armonizzati in una trama, bisogna creare da zero una cornice per mantenere la promessa di combattimento. Una origin story, il nostro mondo che riceve l’invasione di un altro come in Avengers o Justice League, una profezia che deve avverarsi, oggetti mitologici e una grande backstory con mille tornei già avvenuti. Questo è l’inquadramento scelto da Greg Russo e Dave Callaham (non a caso già sceneggiatore di cinecomic da entrambi i lati della barricata, sia Marvel che DC). La Bibbia di Mortal Kombat è tutta stesa in modo che possano esserci più film e in modo da suonare alle orecchie degli spettatori non lontano dal cinema di grande azione contemporaneo, quello dei supereroi. Del resto anche il protagonista, Cole Young (creato per il film) ha come obiettivo di diventare un personaggio della saga, cioè scopre dentro di sé di avere dei poteri e come usarli, così compiendo il proprio destino.

Un film fondato sui combattimenti stretto da una parte da John Wick (cioè dalla rivoluzione di The Raid) e i suoi combattimenti serissimi e iperrealistici, e dall’altra dai cinecomic e la loro impossibile idea di azione, tutta computer grafica, ritmo, grandi scale e autoironia.
Mortal Kombat non è nessuno dei due, non può proprio esserlo. Non ha il know how tecnico per essere il primo né il budget per essere il secondo, tuttavia tenta disperatamente di trovare un’identità. Classico, ordinato ma inevitabilmente vecchio stampo è un action movie come se ne facevano una volta a cui è stata data una mano di bianco per farlo apparire nuovo, dietro il fan service, gli omaggi al gioco e il suo vero retaggio cioè il ralenti e le mosse coattissime.

Le differenze ci sono e come però! Mortal Kombat è corretto e ordinato ma fuori moda. Non è retrò, non cita gli anni ‘90, lo è proprio. La differenza più grande la si sente nelle motivazioni che spingono i personaggi e danno un senso al loro percorso. Nei film di supereroi la spinta viene sempre da implicazioni psicologiche (traumi, bisogno di salvare gli altri, sentimenti, rapporti con i genitori, senso di colpa…). Nei film come John Wick o Atomica Bionda le motivazioni sono ironiche (un’assurda storia di spionaggio, il cane morto). In Mortal Kombat invece, come una volta, regna l’individualismo, ognuno si muove alimentato da ragioni e obiettivi che valgono solo per sé. Combatto per il mio amico, per la mia famiglia, per il mio maestro, per vendicare i miei cari ecc. ecc. Una volta era la regola, quando il cinema d’azione era fatto di eroi solitari, oggi non più.

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