[Cannes] Moonrise Kingdom, la recensione
Più intimo, più personale, più narrativo ma sempre con il medesimo umorismo e approccio visivo. Stavolta Anderson può anche commuovere...
Quando hai uno stile così distinguibile, netto, inesorabile e personale come quello che Wes Anderson sbandiera la cosa più facile in assoluto è ripetersi all'infinito.
Si tratta di un film di ribellismo, molto di più che in passato, fino a ricordare a un certo punto ricorda La rabbia giovane (ma senza rabbia e con distaccata disillusione), e uno in cui il romanticismo individuale dei due protagonisti (unici e assoluti, non capitava da Rushmore) è limpido e cristallino. Due ragazzi incompresi dal loro ambiente che fuggono per amore. Niente di più semplice, inserito nel mondo di Anderson, questa volta declinato nel microcosmo dei boyscout, ovvero bambini vestiti da adulti che prendono ordini da adulti vestiti da bambini in un ambiente paramilitare solo più grottesco, che poi è la summa di qualsiasi storia Anderson abbia raccontato fino ad ora.
Questo ovviamente non significa che Anderson sia andato in deroga al proprio stile, anzi sembra aver trovato una storia che gli calza a pennello. Lo script e la recitazione distaccati, colmi di formalismi e poco espansivi riescono a enfatizzare gli smottamenti interiori invece che raffreddarli, le esplosioni inattese di emotività irrompono inattese, i movimenti ortogonali raccontano bene la vita di costrizione dei protagonisti e ancora di più l'emarginazione che nasce dall'essere più interessato alle cose del mondo rispetto ai propri coetanei non fa che servire la causa dei due amanti in fuga.
E quando alla fine si scopre quale sia ilMoonrise Kingdom (ma in fondo anche prima) può scendere più di una lacrima per una delle storie d'amour fou più convincenti degli ultimi anni.