Moonlit Winter, la recensione

Moonlit Winter aderisce alla tendenza del cinema asiatico di raccontare intime storie universali, ma poi calca troppo i toni melodrammatici

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Il cinema asiatico degli ultimi anni, e in particolare quello coreano, ha uno dei suoi punti di forza nel raccontare piccole e intime storie che trascendono la dimensione locale per toccare corde universali. Moonlit Winter, vincitore del Florence Korea Film Fest 2020, per certi versi aderisce in pieno a questa tendenza, per altri ne prende le distanze, e il risultato complessivo non è del tutto soddisfacente. In una giornata invernale, Yoon-hee riceve una lettera da Otaru, in Giappone, che la figlia adolescente Sae-bom accidentalmente intercetta. Intuendo dal suo contenuto che la madre le ha sempre nascosto un segreto riguardante il suo passato, decide di scoprire la verità. Ricorrendo a una scusa (un tradizionale viaggio di famiglia prima di partire per l’università) la convince così a partire per il Giappone.

La storia dunque si basa su un mistero da svelare, ma regista/sceneggiatore Lim Dae-Hyung si focalizza soprattutto sull’aspetto umano e sulle dinamiche famigliari. Al rapporto tra la madre e la figlia intreccia quella tra una nipote, autrice della lettera, e sua zia: entrambi sono segnati da reticenze che li minano. Come da tradizione, per cercare una messa in scena pudica, mantiene la macchina da presa distante dai personaggi, optando sovente per campi lunghi, in cui talvolta c’è un elemento (uno specchio o una finestra) a frapporsi tra questa e le figure ritratte. Così, anche nei campi a due all’interno del loro piccolo appartamento, all’inizio madre e figlia sembrano sempre lontane, incapaci di comunicare. Il gelo tra di loro è poi evocato anche dall’ambientazione: nella fredda Otaru non smette di nevicare e tutto è imbiancato. Le ambientazioni sono dunque suggestive, ma non vanno oltre l’immediata funzione di specchio dell’interiorità dei personaggi. Un immediato simbolismo, che unito ad altri di cui il film è infarcito (la luna alta nel cielo, una stufetta per riscaldarsi) ben rappresenta l'obiettivo del film, che, a mano a mano che procede la storia, viene meno alle sue intenzioni di partenza, per fare leva su facili emozioni.

Il regista, a differenza di Hirokazu Kore'eda (inevitabile e frequente modello di riferimento, vedi anche il recente Moving On) non lascia il tempo alle emozioni di formarsi, di scaturire dopo un lungo lavoro di preparazione. Invece, ci presenta subito le coordinate della storia, le relazioni e le motivazioni dei protagonisti, per caricarne i vari passaggi di toni melodrammatici. Ogni volta che c’è un primo piano, non mancano lacrime e momenti intensi, e viene dato spazio anche a intermezzi riflessivi in cui lasciare vagare a vuoto i personaggi, senza che questi ci dicano qualcosa di più sul loro conto. Allo spunto di partenza non viene poi unito poi un intreccio adeguato che possa supportare il seguito. La vicenda del progressivo riavvicinamento tra madre e figlia procede con pieghe del tutto prevedibili, mentre il versante che riguarda il passato della madre è troppo in secondo piano e le riflessioni che porta con sé solo accennate per interessarci davvero. E così, quando arriva quello che dovrebbe essere il climax emotivo, questo non ci appare come una commovente epifania, ma solo come uno dei tanti altri scontati snodi narrativi.

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