Moonage Daydream, la recensione | Cannes 75

Un documentario entusiasta del lavoro sull'immagine di David Bowie che poi disperato deve anche occuparsi del resto della sua carriera

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Moonage Daydream, il documentario su David Bowie presentato a Cannes

Non è per niente facile realizzare un documentario su David Bowie, perché pone subito il problema di come trattare la sua immagine. Brett Morgen (già autore di Cobain: Montage Of Heck) fa di questo problema il punto stesso del suo lavoro. Tutto Moonage Daydream è pensato come un videoclip, cioè è pensato per basarsi sulle immagini e tramite esse riflettere su Bowie e il suo lavoro. Come un video essay, si commenta qualcosa di visivo con la sua stessa lingua, quella delle immagini. Ma a differenza dei videoclip poi Moonage Daydream deve trattare anche le altre fasi della carriera del suo soggetto, quelle in cui il lavoro sulla musica e poi l’apertura ad altre arti diventa cruciale. E lì cominciano i problemi.

L’impianto è proprio basilare: il resoconto della carriera di David Bowie da Ziggy Stardust fino agli anni ‘90. Lì si ferma, cioè si ferma quando finisce l’esplorazione di nuove frontiere. Morgen vuole parlare del Bowie intellettuale, e per farlo alterna le immagini e la musica con interviste di repertorio in cui lui parla di sé, delle scelte, della sua persona, degli alter ego, dell’identità, della società, dell’arte ecc. ecc. Tutto quello che è commento intellettuale, e come sa chi ha confidenza con Bowie è un bel sentire, una mente fina con idee chiarissime e grandi capacità espositive.

Ma la differenza tra la possibilità di manipolare le immagini più forti di Bowie, quelle che lavorano sulla ridefinizione di un’identità attraverso la sovrapposizione di segni sempre diversi in un continuo mutamento che palesa proprio ciò che gli sfugge, e poi invece l’incombenza di lavorare sul racconto e sulla parola è forte. Moonage Daydream propone quasi solo musica live di Bowie ma non è innamorato della performance sul palco quanto proprio dei look e del loro potere. Invece quando si passa al racconto della lingua della musica (dalla fase berlinese in poi) il suo lavoro diventa minimo.
Sembra sempre concentrarsi (in ogni fase) sui modi in cui Bowie esprime una medesima visione di mondo, sul rapporto con il successo e poi sulle rinunce. Ma è tutta materia standard ripetuta allo sfinimento per due ore e venti.

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