Monterossi (prima stagione): la recensione

Monterossi, la nuova serie di Prime Video, non è proprio una serie criminale, più un giallo da tv generalista in confezione smagliante

Critico e giornalista cinematografico


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Monterossi, la recensione di tutta la prima stagione

Roan Johnson sta diventando un giallista dell’audiovisivo, uno specialista di serie e film gialli, con diversi omicidi ma che non sconvolgano mai, gialli desaturati di qualsiasi componente che turbi. Cosa vera nelle regie di C’era una volta Vigata, vero nel leggerissimo I delitti del BarLume ma anche nel film State a casa, che con i morti e il giallo ci flirta, che sarebbe in teoria più duro ma che duro non lo vuole essere mai. E così anche Monterossi, la sua parabola in 6 episodi la porta a termine seguendo le buone regole del giallo da prima serata, usando le indagini per lasciare che i protagonisti discorrano dei loro problemi da melò, degli amori che non vanno e le carriere che si impantanano.

È il ritorno selvaggio della tv generalista e dei suoi luoghi comuni audiovisivi, dei suoi racconti e del suo modo di confezionare prodotti, solo aggiornato all’estetica e un po’ ai formati delle piattaforme. Per Prime Video Monterossi fa quel che faceva il BarLume (con meno commedia da una parte e più pistole e minacce dall’altra) per Sky, solo in 6 puntate invece che in un film. Rimane che non c’è niente della nuova televisione, cioè di quel movimento che ha cambiato la serialità importando tecniche di racconto avanzato e un lavoro più sofisticato sulla narrazione per immagini e sulla scrittura. Monterossi adatta il personaggio dei romanzi di Alessandro Robecchi puntando, di nuovo come la tv generalista, sul talent, sullo stropicciato Bentivoglio e sull’accattivarsi la simpatia invece che conquistare teste e cuori.

monterossi bentivoglio

La cornice stavolta è il noir alleggerito a Milano (come ci ricorda di continuo lo skyline che fa da sfondo all’appartamento del protagonista) e il mondo dell’autorialità televisiva, ma non cambia molto. Tutto è premasticato, il tono maledetto e la voce fuoricampo, i personaggi da sottobosco poliziesco e anche gli omicidi sono depurati di tutto quello che può esistere di perturbante e apparecchiati per non sconvolgere la digestione a nessuno. Monterossi alla fine è una serie leggera, con venature amabili di commedia, molto ben confezionata e presentata (perché Roan Johnson è un regista che garantisce il risultato), ma che in nessun momento dimostra di stare sulle piattaforme per una ragione, in nessun momento dimostra di voler fare qualcosa di diverso. È la versione dalla buona fattura della serie poliziesca da tv generalista, dotata di un tono più centrato e coerente, di certo meno fasullo e artefatto ma che poi non sa cambiare la posizione in cui mette lo spettatore: imboccato dall'inizio alla fine, mai sfidato a capire, indagare e interpretare quel che vede come fanno le serie migliori.

Nonostante la storia si apra con una morte sventata di poco alla fine l’impressione è che i coinvolti siano sempre tutte brave persone e che il lato oscuro dell’umano (cioè la pozza in cui sguazza il giallo e per non dire del noir) sia osservato a grandissima distanza, con il cannocchiale, evocato a parole ma mai davvero mostrato, mai davvero saggiato. È una funzione rassicurante quella cui vuole assolvere Monterossi, e lo sa bene (e fa bene) Bentivoglio, che è bravo nella sottile arte di piacere, di essere interessante e perdente, intelligente, simpatico e un po’ pavido, così facile all’immedesimazione, così prossimo nei sui comodi panni. Mai ambizioso, sempre alla portata.

monterossi tavola

In una lunga sequenza di scene di giorno e qualcuno più scura di notte (ma mai veramente ombrosa), Monterossi guarda passare davanti a sé la rappresentazione dell’Italia senza contrasti: seconda generazione, gay e anche comunità Rom. Il racconto prevede tutti, non dimentica nessuno e, di nuovo, come la televisione generalista, gli fa fare una passerella ma non ne racconta mai contrasti, problemi e incastri decisivi, non li mette in chiave problematica, non li sfrutta per sfrugugliare qualcosa di spaventoso o anche solo cocente. Li fa vedere e li prevede nel suo racconto per poi passare ad una bella scena a tavola dei personaggi che mangiano con una musichetta conciliante che tra un dialogo e l’altro manda avanti la trama.

Insomma Monterossi non è che sia scritto male ma il suo problema è che di certo non è scritto bene. Non cela mai bene il fatto che il caso su cui si indaga è un pretesto, non cela bene il fatto che a nessuno interessa davvero ma serve a mettere sul piatto la storiella sentimentale di ogni personaggio. Non che non sia vero anche per le serie migliori ma il punto dei casi migliori è come tutto questo viene ingarbugliato e intrecciato, come le questioni personali arrivino di rinterzo, come se fossimo noi a notarle e non la serie a sbattercele in faccia quando tutto si ferma e non si sa perché una persona che qualcuno vuole uccidere parla con tutti dei propri problemi di cuore. E non va meglio la scrittura dei dialoghi, interscambiabili con quelli di qualsiasi serie criminale Rai. Cosa che non è mai un buon segnale.
Pensavamo che le piattaforme rivoluzionassero la serialità italiana, invece la serialità italiana ha rivoluzionato le piattaforme.

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