Monster, la recensione

Più che volontariamente ambiguo sembra indeciso Monster, film giudiziario su un diciassettenne afroamericano coinvolto in una rapina che finisce con un omicidio

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Monster, la recensione

Più che volontariamente ambiguo sembra indeciso Monster, film giudiziario su un diciassettenne afroamericano di Harlem coinvolto in una rapina che finisce con un omicidio. Il tirante narrativo sta tutto nella domanda “ma quanto è coinvolto?”. Tuttavia, allo stesso tempo, il film ci presenta un personaggio talmente “buono e puro” che risulta difficile nutrire dubbi sul suo conto. Non è ben chiaro quanto questo effetto sia voluto dal regista Anthony Mandler o dagli sceneggiatori, fatto sta che se all’inizio l’andamento del film e il coinvolgimento di chi guarda ne risultano compromessi, da un certo punto in avanti questa contraddizione risulta anche sensata. Il problema, però, è che non si capisce abbastanza cosa gli autori vogliano davvero comunicare, ed è come se il film andasse incontrollato in direzioni casuali: a volte fortunate, a volte molto meno.

Si parte in medias res a fatto già compiuto, accompagnati dalla voce fuori campo del protagonista  Steve (Kelvin Harrison Jr.) che, dalla cella di un penitenziario newyorkese, ripensa a ciò che è successo un anno prima mentre attende di andare a processo. Ed è in una continua alternanza tra passato e presente che prende forma in modo via via più definito la sua storia, tra le aule del tribunale e le immagini della sua vita borghese, di fortunato nella miseria, di ragazzo acqua e sapone con una famiglia che lo ama e che lo sostiene nel suo sogno di diventare regista, mentre i coetanei del suo quartiere si danno alla criminalità. Ma, più si va avanti, più si comincia ad avere piccoli (diciamo piccolissimi) sospetti sull’innocenza di Steve.

La vocazione cinematografica del protagonista è un punto su cui Monster insiste moltissimo anche a livello registico, usando diversi inserti video che Steve gira col cellulare o fermi immagine delle delle foto che si diletta a fare in giro per il quartiere. Si insiste moltissimo anche sul concetto di frammentarietà, di molteplicità dei punti di vista (c’è proprio una scena in cui il suo professore gli parla di Rashomon di Akira Kurosawa, esempio da manuale di questa idea). È chiaro che l’intento di Anthony Mandler sia quello di parlare di come la realtà abbia sempre varie sfaccettature e di collegare quest’idea all’ambiguità narrativa del cinema; ma questo lo fa in modo palese, evidente, insistito, continuando a dichiararlo attraverso la voce del protagonista (che non fa che ripetere le stesse cose) e usando un montaggio frammentario, non lineare. C’è però più uno strano caos che un chiaro accostamento, soprattutto all’inizio, che intercorre tra la voce, le immagini dell’aula e quelle dei giorni prima della rapina. Anthony Mandler cerca di usare gli strumenti del noir (la voce del protagonista che riflette su un fatto oscuro e irrazionale, l’ambiguità narrativa), ma la voce narrante qui non regala significati diversi a ciò che si vede. 

Perdendosi nella ricerca dell’ambiguità, Monster perde anche il senso della trama e della storia. Che relazione ha Steve con gli altri coinvolti? C’entra davvero qualcosa la loro disparità socio-economica? In che modo il suo desiderio di fare cinema dà un senso ulteriore alla sua vicenda? Verso la fine, Monster riesce a recuperare un certo ritmo, a controllare la sua irrequietezza focalizzandosi solo sulla parte processuale. Nonostante la recitazione lasci un po' con l'amaro in bocca (Jennifer Hudson, che interpreta la madre, e John David Wahington, che interpreta uno degli accusati, sono entrambi piuttosto piatti), in questa parte, seguita finalmente in modo cronologico, il film lascia andare le sue pretese iniziali e mette in campo i fatti in modo coinvolgente. Ma, che cosa voglia dire, non è ancora abbastanza chiaro.

Cosa ne dite della nostra recensione di Monster? Scrivetelo nei commenti dopo aver visto il film!

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