Monster Hunter, la recensione

Totalmente a fuoco sulla missione, asciutto e senza un minuto di troppo Monster Hunter sa cosa vuole essere e lo è in pieno

Critico e giornalista cinematografico


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Monster Hunter, la recensione

Ci sono registi che con gli anni peggiorano, si affievoliscono e perdono lo smalto dei loro esordi. Ce ne sono altri invece che sembrano eterni. E poi ci sono quelli come Paul W. S. Anderson, che iniziano con ben poca maestria e negli anni imparano a fare il lavoro. Aveva iniziato a metà anni ‘90 con film come Mortal Kombat per diventare poi famoso con Resident Evil, ma negli ultimi tempi è migliorato nettamente. Ora è ufficiale: Paul W. S. Anderson ha proprio imparato come si fanno i film. Monster Hunter centra l’equilibrio che lo rende senza dubbio perfetto: è esattamente quello che vuole essere. Non ambisce ad uno status oltre le proprie possibilità, non vuole replicare più di tanto gli altri, non è indeciso tra vari generi, non si vergogna di quel che è, anzi.

È l’adattamento di un videogioco (genere in cui è facile capire Paul W. S. Anderson è un navigato maestro) di cui stravolge tutto tenendo fermi i dettagli (armi, mostri, dinamiche…). La scelta migliore. Un gruppo di militari stanziati nel deserto è coinvolto in una tempesta di fulmini che li trasporta in un altro mondo, popolato da mostri giganti. In breve vengono decimati tutti (ma la loro resistenza è uno spettacolo in sé), tranne il comandante che lì incontra un autoctono con cui cercare di capire come tornare a casa. In realtà capirà molto di più di un mondo che ha un non so che di anni ‘80 e ‘90, un feeling da vecchio cinema fatto di scenografie reali e uno score educatamente vintage e, come si conviene, grossolanamente burino.

È la nobilissima tradizione del cinema di militari americani contro mostri (qui o nell’altro mondo a seconda dei casi), è la regressione di Predator allo stadio primitivo per un confronto animalesco. Visto anche il videogioco di partenza lo scontro con i vari mostri è infatti cruciale e Monster Hunter sa appassionare proprio a quello, ai modi in cui qualcuno di piccolo e fragile può tirare giù qualcosa di gigantesco di inarrestabile. Per ragioni di spettacolarità capita anche che qualche mostro non mantenga sempre le stesse proporzioni di scena in scena, a seconda delle esigenze, ma con tutta la buona volontà ci vuole coraggio ad accusare di implausibilità un film simile. Il suo scopo è un altro e lo raggiunge.

Lo raggiunge anche perché al centro di tutto il corpo d’azione migliore che Hollywood abbia a disposizione oggi: Milla Jovovich. In una fase del cinema in cui tutte le attrici si improvvisano eroine d’azione lei è il John Wayne della categoria, porta sulle sue spalle e sul suo corpo la storia del genere, oltre a lavorare a quel livello di maestria, profondità della comprensione di quel tipo di recitazione e credibilità. Il suo sguardo e la sua postura sono il metro a cui fanno riferimento le altre, e quando la vediamo al suo massimo è un spettacolo. Milla Jovovich è il modello originale che le altre recitano, ed è ancora imbattibile.

Addirittura riesce a formare una coppia credibile con Tony Jaa, uno dei migliori artisti marziali del cinema in attività, anche i loro confronti per quanto necessariamente sovramontati (il confronto tra uno come Tony Jaa e una persona normale sarebbe impensabile senza il montaggio) funzionano, reggono e lei è capace di non far mai dubitare di poter essere alla pari di questo autoctono dell’altro mondo come dei ragni giganti delle caverne (momento in cui, tra bava, artigli e putrefazione va in modalità full-Sigourney Weaver).

Ciliegina sulla torta è un Ron Perlman con una capigliatura fuori dalla grazia di Dio, che solo lui (e forse Will Ferrell) può permettersi, comprimario d’eccezione capace di scortare i protagonisti verso un finale (una volta tanto) ottimo, pieno di imprevisti veri, che fa sembrare l'obbligo a lanciare un eventuale sequel quasi una trovata originale.

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