Monster Hunter, la recensione
Totalmente a fuoco sulla missione, asciutto e senza un minuto di troppo Monster Hunter sa cosa vuole essere e lo è in pieno
Ci sono registi che con gli anni peggiorano, si affievoliscono e perdono lo smalto dei loro esordi. Ce ne sono altri invece che sembrano eterni. E poi ci sono quelli come Paul W. S. Anderson, che iniziano con ben poca maestria e negli anni imparano a fare il lavoro. Aveva iniziato a metà anni ‘90 con film come Mortal Kombat per diventare poi famoso con Resident Evil, ma negli ultimi tempi è migliorato nettamente. Ora è ufficiale: Paul W. S. Anderson ha proprio imparato come si fanno i film. Monster Hunter centra l’equilibrio che lo rende senza dubbio perfetto: è esattamente quello che vuole essere. Non ambisce ad uno status oltre le proprie possibilità, non vuole replicare più di tanto gli altri, non è indeciso tra vari generi, non si vergogna di quel che è, anzi.
È la nobilissima tradizione del cinema di militari americani contro mostri (qui o nell’altro mondo a seconda dei casi), è la regressione di Predator allo stadio primitivo per un confronto animalesco. Visto anche il videogioco di partenza lo scontro con i vari mostri è infatti cruciale e Monster Hunter sa appassionare proprio a quello, ai modi in cui qualcuno di piccolo e fragile può tirare giù qualcosa di gigantesco di inarrestabile. Per ragioni di spettacolarità capita anche che qualche mostro non mantenga sempre le stesse proporzioni di scena in scena, a seconda delle esigenze, ma con tutta la buona volontà ci vuole coraggio ad accusare di implausibilità un film simile. Il suo scopo è un altro e lo raggiunge.
Addirittura riesce a formare una coppia credibile con Tony Jaa, uno dei migliori artisti marziali del cinema in attività, anche i loro confronti per quanto necessariamente sovramontati (il confronto tra uno come Tony Jaa e una persona normale sarebbe impensabile senza il montaggio) funzionano, reggono e lei è capace di non far mai dubitare di poter essere alla pari di questo autoctono dell’altro mondo come dei ragni giganti delle caverne (momento in cui, tra bava, artigli e putrefazione va in modalità full-Sigourney Weaver).
Ciliegina sulla torta è un Ron Perlman con una capigliatura fuori dalla grazia di Dio, che solo lui (e forse Will Ferrell) può permettersi, comprimario d’eccezione capace di scortare i protagonisti verso un finale (una volta tanto) ottimo, pieno di imprevisti veri, che fa sembrare l'obbligo a lanciare un eventuale sequel quasi una trovata originale.