Monster (Kaibutsu), la recensione
In un genere che conosciamo Monster introduce una nuova complessità per portare lo spettatore a capire gli esseri umani
La recensione di Monster, il film di Hirokazu Kore'eda presentato in concorso al Festival di Cannes
Monster è studiato solo apparentemente come i film che rinarrano più volte i medesimi fatti mostrando il medesimo lasso temporale da punti di vista diversi. In realtà fa molta attenzione a non proporre mai due volte la stessa scena e seguendo ogni volta un personaggio diverso non cambia solo quello che sappiamo sui fatti ma proprio i caratteri degli altri personaggi. Non solo ognuno guarda la realtà diversamente ma ognuno percepisce le altre persone diversamente a partire dalle proprie paure e dalle proprie convinzioni. Così inizialmente, quando seguiamo la tutrice di un bambino, ci sembra che la storia sia quella di un ragazzo problematico, picchiato da un insegnante e di una scuola omertosa che lo copre e avalla questo comportamento malato. Ci sembra addirittura che il bambino abbia sviluppato autolesionismo e che possa suicidarsi da un momento all’altro. Ma è solo la paura di questa donna. Tutto cambierà più volte lungo il film e ad ogni tornata il “mostro” sembrerà qualcun altro non solo grazie alla scrittura ma attraverso la recitazione, la color correction e lo score di Ryuichi Sakamoto, ogni volta orientati diversamente in modi così sottili da non accorgersene.
Nei film di Kore’eda spesso abbiamo osservato persone compiere gesti terribili (come rapire bambini) così da vicino e con così tanta partecipazione al loro punto di vista da vederci un amore fortissimo, da capirli e da interrogarci su quanto sia giusto o no chiamarli mostri o condannarli. Qui lo sforzo va anche più in là e c’è la convinzione che se il film durasse di più e vedessimo ancora una volta la storia dal punto di vista di quelli che ci sembrano i peggiori, i cattivi o i meschini, capiremmo anche loro. Qui addirittura un fazzoletto lanciato da una bambina al protagonista, una bambina che fino a quel punto era totalmente marginale (e marginale rimarrà) e che ha avuto un paio di battute e basta, ci fa immediatamente capire che anche lei ha un sentimento e che quelle cosa che ha detto in quelle due misere battute forse era falsa e motivata da questo. Riuscire a portarci lì vuol dire aver cambiato interamente la maniera in cui noi spettatori approcciamo la storia che stiamo guardando. Non ci siamo immedesimati e basta, abbiamo proprio assunto il principio morale di Kore’eda e lo stiamo applicando da soli a qualunque personaggio, quel principio per il quale comprendere le persone vuol dire comprendere la realtà.
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