Monster (Kaibutsu), la recensione

In un genere che conosciamo Monster introduce una nuova complessità per portare lo spettatore a capire gli esseri umani

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Monster, il film di Hirokazu Kore'eda presentato in concorso al Festival di Cannes

Qualsiasi uomo, donna o bambino, se guardato a fondo, se seguito a sufficienza può essere compreso. Lo diceva il neorealismo. E ogni volta che comprendiamo un essere umano comprendiamo anche una porzione di realtà, dice Hirokazu Kore’eda. Quello che rende questo regista uno tra i più sublimi al mondo non è certo la sua infallibilità (ne ha sbagliati di film e quelli impeccabili della sua filmografia sono un pugno) ma la maniera metodica e instancabile con cui inseguendo la sua visione di mondo osa, sperimenta, ricerca e tenta ad ogni nuovo film una maniera diversa di interagire con lo spettatore per mostrargli il mondo e l’umanità attraverso i suoi occhi. I suoi possono non essere film perfetti, e questo non lo è, ma sono film audaci che vogliono instaurare con lo spettatore un rapporto complicato. Sempre. 

Monster è studiato solo apparentemente come i film che rinarrano più volte i medesimi fatti mostrando il medesimo lasso temporale da punti di vista diversi. In realtà fa molta attenzione a non proporre mai due volte la stessa scena e seguendo ogni volta un personaggio diverso non cambia solo quello che sappiamo sui fatti ma proprio i caratteri degli altri personaggi. Non solo ognuno guarda la realtà diversamente ma ognuno percepisce le altre persone diversamente a partire dalle proprie paure e dalle proprie convinzioni. Così inizialmente, quando seguiamo la tutrice di un bambino, ci sembra che la storia sia quella di un ragazzo problematico, picchiato da un insegnante e di una scuola omertosa che lo copre e avalla questo comportamento malato. Ci sembra addirittura che il bambino abbia sviluppato autolesionismo e che possa suicidarsi da un momento all’altro. Ma è solo la paura di questa donna. Tutto cambierà più volte lungo il film e ad ogni tornata il “mostro” sembrerà qualcun altro non solo grazie alla scrittura ma attraverso la recitazione, la color correction e lo score di Ryuichi Sakamoto, ogni volta orientati diversamente in modi così sottili da non accorgersene. 

Il crinale percorso da Monster, non c’è da nasconderselo, è difficilissimo. Lavora sulla frustrazione dello spettatore molto molto a lungo, almeno per tre quarti della durata, rischiando di perderlo e chiedendogli di avere fiducia che tutto arriverà ad una soluzione e che questa strana maniera di procedere, apparentemente faticosa, in realtà alla fine pagherà. E come se paga! Ma bisogna arrivarci. Alla fine capiremo che bambini e adulti vivono negli stessi ambienti, nelle stesse famiglie e frequentano gli stessi luoghi ma sembrano totalmente separati, come nessun film era riuscito a mostrare, interagiscono ma è come se non si parlassero e quindi non si capissero. E questo avviene proprio perché sono esseri umani, hanno desideri, paure e amori. Come noi che guardiamo.

Nei film di Kore’eda spesso abbiamo osservato persone compiere gesti terribili (come rapire bambini) così da vicino e con così tanta partecipazione al loro punto di vista da vederci un amore fortissimo, da capirli e da interrogarci su quanto sia giusto o no chiamarli mostri o condannarli. Qui lo sforzo va anche più in là e c’è la convinzione che se il film durasse di più e vedessimo ancora una volta la storia dal punto di vista di quelli che ci sembrano i peggiori, i cattivi o i meschini, capiremmo anche loro. Qui addirittura un fazzoletto lanciato da una bambina al protagonista, una bambina che fino a quel punto era totalmente marginale (e marginale rimarrà) e che ha avuto un paio di battute e basta, ci fa immediatamente capire che anche lei ha un sentimento e che quelle cosa che ha detto in quelle due misere battute forse era falsa e motivata da questo. Riuscire a portarci lì vuol dire aver cambiato interamente la maniera in cui noi spettatori approcciamo la storia che stiamo guardando. Non ci siamo immedesimati e basta, abbiamo proprio assunto il principio morale di Kore’eda e lo stiamo applicando da soli a qualunque personaggio, quel principio per il quale comprendere le persone vuol dire comprendere la realtà.

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