Monkey Man, la recensione

Diviso in due parti che corrispondono a due momenti del protagonista, Monkey Man è incostante ma anche un grande nuovo film d'azione

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Monkey Man, il film di Dev Patel in uscita al cinema il 4 aprile

Fino a oggi non è stato proprio un attore d’azione Dev Patel, solo una piccola parte della sua carriera l’ha passata in quel tipo di film, eppure il suo esordio da regista mostra quanto conosca bene il cinema d’azione. Monkey Man non è la replica di altri stili, non è un film che fa azione per trovare più facilmente un pubblico ma uno che vuole fare davvero cinema action. Tutta la prima parte dimostra di sapere quanto il cinema d’azione sia il parente più vicino del cinema muto, funziona solo per immagini e usa i dialoghi come fossero un tappeto sonoro. Nulla di ciò che è importante viene detto, le parole che i personaggi si scambiano sono come i costumi, le scenografie o il trucco, servono a definire un tono e le singole personalità. Tutto quello che invece va compreso della trama o dell’intreccio è suggerito con immagini, indizi sullo sfondo e piccoli movimenti di camera. È il pubblico a indagare le immagini per capire qualcosa, il film lo guida e lo aiuta ma non lo imbocca mai.

Capiamo così che c’è questo ragazzo che guadagna pochi soldi con combattimenti illegali, il quale si vuole infiltrare in un locale prestigioso in cui crimine e polizia incontrano il potere politico. Passa dalle cucine, si fa assumere come lavapiatti e tenta la scalata a una posizione che lo metta a contatto con i clienti. È chiaro da subito che è lì con un secondo fine, ascolta, guarda storto, impara e controlla i movimenti di tutti, c’è una vendetta nell’aria ma è ancora presto per sapere per quale ragione e contro chi. Lo sforzo e il lavoro minuzioso di trama per rendere plausibile, accettabile e concreto il fatto che uno come Dev Patel, con quel volto e quel fisico, sia il nostro eroe d'azione alla fine, unito al lavoro più fisico sulle coreografie e all'atteggiamento giusto nella recitazione (tra divertimento e tigna), paga.

Se qualcosa ricorda Monkey Man è il cinema coreano costantemente in moto, quello che sembra non esaurire mai nuovi intrecci, ma non ne ha la geometrica esattezza, anzi la sua sorprendente perizia tecnica la usa per creare caos. L’intenzione per tutta la prima metà del film (la migliore) è di rispecchiare il caos delle slums indiane, in cui tenero e violento, povertà e ricchezza, morte e aspirazioni convivono. In questo viene inserita la perizia tecnica delle coreografie d’azione moderne, in cui arti marziali impeccabili sono unite a un design della confusione dei confronti fisici molto appassionante. È una maniera di fare film che mescola espressionismo del cinema indiano a meticolosità di quello hollywoodiano, con un risultato a lungo davvero ottimo, poi meno esaltante ma in tutto e per tutto godibile.

Ed è davvero molto interessante come Dev Patel riesca a riprendere una qualsiasi città indiana del presente come fosse una megalopoli da futuro distopico, fondata su grandissime differenze sociali che passano dall’architettura e dal design, invasa dai media che rimandano notizie di adunate di massa e ripetono immagini di un’elite quasi dittatoriale. È chiaro già visivamente che quello è un mondo fondato sul compromesso tra potere politico, polizia e potere economico alle spese della massa, un posto in cui lo spirito è schiacciato dalla materia e i grandi potenti vivono come monaci in attici dall’arredamento essenziale perché anche lo spiritualismo è un mezzo di conquista del potere.

Una seconda parte più scontata e anche registicamente meno vivace, leverà ogni dubbio: questo è un B movie di vendetta e arti marziali, in cui sono presenti tutti i passaggi obbligati del genere (incluso l’allenamento in un luogo remoto), ma è molto interessante come Dev Patel (che ha scritto la sceneggiatura con John Collee e Paul Angunawela) abbia spostato la collocazione dei singoli elementi. Rimandando alcuni svelamenti, mettendo il protagonista nelle situazioni d’azione più interessanti all’inizio e facendogli sostanzialmente ripetere due volte la medesima impresa (con consapevolezze diverse), Monkey Man sposta la concentrazione da una vendetta fredda a lungo pianificata, che sarebbe lo svolgimento classico, a una vendetta frutto di una purificazione e di un processo di miglioramento spirituale. Non è la storia di un eroe che vuole punire i cattivi, ma quella del trionfo dell’India classica su quella moderna.

Continua a leggere su BadTaste