Monica, la recensione

La storia di un rapporto che viene ricreato da zero a partire da una nuova identità, che non ha niente per dialogare con lo spettatore

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Monica di Andrea Pallaoro, in concorso al Festival di Venezia

Si può davvero tenere così poco a dei personaggi dopo aver passato due ore vicino a loro e ai loro drammi? Come è possibile guardare interagire dei personaggi per così tanto tempo e poi non sentire niente per loro? Monica, girato in un inspiegabile 4:3 (quinta o sesta produzione d’autore italiana in questo fermato solo quest’anno, il conto è ormai perduto), è il tipo di film che dà al cinema d’autore una pessima nomea.

Certo, se non altro rispetto ad Hannah (il terribile film precedente), qui c’è un’idea: la storia di una donna trans che sta accanto ad un genitore morente, elaborando ciò che accade ma senza rivelarsi. La madre nei suoi ultimi giorni non sa che Monica è diventata donna, pensa sia una persona che la accudisce. Così, come un’amante che non può amare alla luce del giorno, senza rivelarsi ed in incognito, la protagonista sviluppa quasi un nuovo rapporto con la madre, uno più in armonia con la nuova identità, fatto di silente accettazione sentimentale.

Se concettualmente l’impianto sarebbe forte, troppo annacquato e troppo languido è Monica per venire a smuovere qualche cuore, per suggerire qualcosa di più delle sue interminabili scene. Non sì può davvero reggere un film intero su uno strato così esile, anche se la fattura è di prim’ordine e l’impianto visivo è molto curato, anche se è chiaro che Pallaoro ha letto il manuale del cinema d’autore italiano e ha ottemperato a tutti i punti richiesti per ottenere la convalida e il bollino. In realtà fare così non è diverso da reggere una commedia su un un paio di buone battute e uno spunto intrigante.

Trace Lysette, la protagonista, sarebbe anche un corpo perfetto per gli obiettivi di Monica, scelta a dovere e dotata delle caratteristiche giuste per rappresentare le questioni identitarie al cuore di tutto, ma non è un’attrice in grado di supplire alla vaghezza del film. Semmai è lei che andrebbe sostenuta. Nemmeno Patricia Clarkson (ben più esperta) riesce ad instaurare con lei un feeling e un legame che possano almeno (se non altro!) commuovere. Così crolla tutto, e anche le scene di contorno che dovrebbero fare da controcanto con il mondo intorno alle due donne, sono semplicemente variazioni su un tema che non esiste.

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