Mondocane, la recensione | Venezia 78
Mondocane di Alessandro Celli riusa con fantasia e chiarezza i luoghi del mafia movie per farne una sorprendente distopia
Cosa può fare oggi il cinema italiano dell’eredità, forse già un po’ stanca di sé stessa, del mafia movie italiano contemporaneo? Per esempio, quello che fa Alessandro Celli con Mondocane: ne prende con eleganza e visionaria creatività le suggestioni, le atmosfere, gli elementi ricorrenti (come il tradimento, la scalata sociale, il bivio senza ritorno in cui si sceglie tra bene e male) per poi immetterli in un panorama finalmente nuovo, inedito, immaginario e non solo immaginabile. Il risultato? Sbalorditivo.
È semplicemente sorprendente la facilità con cui Mondocane ti cala con precisione di atmosfera e dovizia di dettagli dentro i suoi anfratti, riuscendo a caratterizzare in modi nuovi paesaggi balneari, industriali, cittadini. Oltre al grande lavoro scenografico, registico e produttivo c’è però, a sostenerlo, anche un’impalcatura narrativa quasi perfettamente rodata. Alessandro Celli e il co-sceneggiatore Antonio Leotti tessono qui come una tela invisibile, dove tutti gli indizi di trama, apparentemente dispersi, sono in realtà ancorati in un disegno che può essere apprezzabile solo se guardato da lontano. In questo disegno si alternando fluidamente la dolcezza dolorosa dell’adolescenza al racconto ambiguo sull’obiettivo criminale (fare del male, ma forse anche a fin di bene…), e senza la necessità di ragionare sulle cause (l’Italia è devastata da un disastro ambientale, sociale e politico irrimediabile, basta sapere questo) si sta sul presente e le sue dinamiche. Fondamentale è la qualità recitativa che Celli è riuscita ad ottenere dai suoi attori: a partire da Alessandro Borghi, che si cala con misura ed espressività contenuta in questo ruolo di sacerdote pagano di un culto ideale, qui tutti gli attori dimostrano una naturalezza spiazzante.
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