Mister Chocolat, la recensione

Ricostruito con voglia di fare ma poca testa, Mister Chocolat, ha il pregio di avere l'unica star che abbia un senso per il film ma non la rende credibile

Critico e giornalista cinematografico


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Omar Sy è la seconda star di colore del mondo dello spettacolo di tutta la storia della Francia. La prima è stata Chocolat, ovvero Rafael Padilla, ma oggi nessuno lo ricorda, nemmeno in patria.
Clown dei primi del novecento, in anni in cui al circo a Parigi si andava come all’opera, innovatore grazie al compagno (bianco) Fotit dell’arte clownesca (furono i primi clown di categoria Augusto e Bianco ad esibirsi in coppia), raggiunse una fama tale da essere testimonial pubblicitario e immortalato dai Lumiere in una serie di corti. Morì nella miseria nemmeno 50enne per problemi di gioco d’azzardo e pregiudizi dell’epoca.

È quindi perfettamente coerente che a riportare in auge la sua storia sia Omar Sy, eppure proprio lui è il problema principale di questo film. Forse sarebbe più corretto dire che il problema principale è il suo regista e la difficoltà con la quale amalgama la coppia formata da Sy e Thierrée, nipote di Chaplin e vero performer circense. In un film pieno di numeri da circo, uno in cui viene ripetuto ad oltranza a parole quanto la coppia sia brava e innovativa, i numeri che vediamo non funzionano mai. Mentre James Thierrée è perfetto per movimenti, presenza e capacità di incarnare il clown, Omar Sy è sempre fuori luogo e assolutamente inadeguato rispetto al suo partner. Semplicemente non è credibile come animale da pista di circo.

Arrivato al quarto film da regista l’attore Roschdy Zem non sembra per niente padroneggiare la messa in scena. Si dilunga molto sulla ricostruzione d’epoca, si diverte a flirtare con la modernità trasferendo molti problemi degli immigrati contemporanei ai primi del novecento ma dimentica troppo per strada. Dei maltrattamenti lamentati da Chocolat per troppo a lungo non vediamo niente, dobbiamo crederci, del clima d’odio nei suoi confronti non riusciamo mai ad essere davvero persuasi, anche perché quando viene insultato è in maniera eccessivamente plateale. Tutto è artificioso, solo le scenografie e la costruzione d’epoca sembra plausibile.

L’unica cosa che però non si può non riconoscere a Mister Chocolat è come cerchi l’ambiguità. Tenuto ai margini e messo in difficoltà dal mondo bianco, Chocolat era anche il primo aguzzino di se stesso, di certo non aiutato dall’essere l’unico nero della propria vita, totalmente isolato e preda di chiunque. Una storia che poteva facilmente prestare il fianco al pietismo diventa così un ritratto che non disdegna un po’ di crudezza verso il suo protagonista. Almeno fino ad uno smielatissimo finale tutto vestiti rotti ad arte, trucco invecchiante molto posticcio e un desiderio di poesia poco sostenibile.

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