Mister Chocolat, la recensione
Ricostruito con voglia di fare ma poca testa, Mister Chocolat, ha il pregio di avere l'unica star che abbia un senso per il film ma non la rende credibile
Clown dei primi del novecento, in anni in cui al circo a Parigi si andava come all’opera, innovatore grazie al compagno (bianco) Fotit dell’arte clownesca (furono i primi clown di categoria Augusto e Bianco ad esibirsi in coppia), raggiunse una fama tale da essere testimonial pubblicitario e immortalato dai Lumiere in una serie di corti. Morì nella miseria nemmeno 50enne per problemi di gioco d’azzardo e pregiudizi dell’epoca.
È quindi perfettamente coerente che a riportare in auge la sua storia sia Omar Sy, eppure proprio lui è il problema principale di questo film. Forse sarebbe più corretto dire che il problema principale è il suo regista e la difficoltà con la quale amalgama la coppia formata da Sy e Thierrée, nipote di Chaplin e vero performer circense. In un film pieno di numeri da circo, uno in cui viene ripetuto ad oltranza a parole quanto la coppia sia brava e innovativa, i numeri che vediamo non funzionano mai. Mentre James Thierrée è perfetto per movimenti, presenza e capacità di incarnare il clown, Omar Sy è sempre fuori luogo e assolutamente inadeguato rispetto al suo partner. Semplicemente non è credibile come animale da pista di circo.
L’unica cosa che però non si può non riconoscere a Mister Chocolat è come cerchi l’ambiguità. Tenuto ai margini e messo in difficoltà dal mondo bianco, Chocolat era anche il primo aguzzino di se stesso, di certo non aiutato dall’essere l’unico nero della propria vita, totalmente isolato e preda di chiunque. Una storia che poteva facilmente prestare il fianco al pietismo diventa così un ritratto che non disdegna un po’ di crudezza verso il suo protagonista. Almeno fino ad uno smielatissimo finale tutto vestiti rotti ad arte, trucco invecchiante molto posticcio e un desiderio di poesia poco sostenibile.