Miss Peregrine - La casa dei ragazzi speciali, la recensione

All'interno del contesto più convenzionale Miss Peregrine sembra aver riscoperto quelle doti di Tim Burton che una volta lo avevano reso un cineasta adorato

Critico e giornalista cinematografico


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L’atto più burtoniano di tutto Miss Peregrine non è il raccontare di tanti piccoli outsider, diversi e speciali in un mondo che ama l’omologazione. Non è nemmeno il tono gotico della magione o il pallore delle ragazze. Nemmeno quel fascino vintage dell’ambientazione anni ‘40 o la maniera in cui i bambini stessi (dai gemelli fino alle ragazzine) sembrano gli spettri di The Others o le presenze inquietanti dei film horror d’ambientazione novecentesca. Il vero atto burtoniano è Eva Green, scelta nonostante la sua Miss Peregrine dovrebbe avere tutta un'altra età. È lei e quella carica sessuale che contrabbanda anche in un ruolo caricato e pupazzesco come questo. Anche con gli occhi ingranditi dal trucco e la dentatura irreale. E questo contrabbandare qualcosa di scomodo nel cinema mainstream, qualcosa di disturbante e fastidioso per il pubblico più educato in un film indirizzato anche a loro è esattamente l’arte nascosta di Tim Burton.Il vero atto burtoniano è Eva Green, scelta nonostante la sua Miss Peregrine dovrebbe avere tutta un'altra età

Negli ultimi anni abbiamo faticato a riconoscerne il tocco dietro le riproposizioni dei suoi luoghi comuni visivi, in una valanga di adattamenti, sequel e remake che sembravano più che altro realizzati da alcuni fan di Tim Burton, più che da lui. Big Eyes sembrava una vacanza, un viaggio di piacere in cui riscoprire se stesso in un altro contesto, e forse è servito perché Miss Peregrine è un ritorno al Tim Burton classico, un’avventura adolescenziale, una storia di formazione al contrario, in cui il nascosto, spaventoso e anormale accetta l’outsider vessato dai normali. Una specie di famiglia Addams in cui il macabro assume toni spensierati e ordinari.

In questo film dotato di un’ossessione non da poco sul guardare (il protagonista vede quel che gli altri non vedono, i ragazzi speciali sono nascosti alla comunità, tutti hanno occhi esageratamente grandi e i bulbi oculari sono sia ciò che distingue i cattivi, sia ciò di cui si nutrono i vacui, cioè i mostri della situazione), non è tanto la trama a spiccare ma la maniera in cui Burton svicola il cinema di supereroi per lasciare (finalmente) spazio a quelle trovate visive che erano il motivo primigenio per cui il suo pubblico si è innamorato di lui. Jake che porta la ragazza di cui è innamorato attaccata ad una corda come un felliniano palloncino umano (lei ha il potere di fluttuare in aria), oppure il gran finale al parco divertimenti a metà tra indifferenza generale, circo e tristezza, oppure ancora il sottile confine che esiste in quella casa tra la paura e la normalità e come questo sia segnato dalle scenografie, dagli abiti e dalla messa in scena, danno ad un film convenzionalissimo uno spiraglio d’aria. Allo stesso modo in cui pochi secondi in una festa casalinga di una famiglia odiata, e molto meno “famiglia” dei freak che poi Jake incontrerà, regala un livore unico verso costumi, colori, sorrisi e volti che sono i veri mostri del film.

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