Sette Minuti Dopo Mezzanotte, la recensione
Abbandonato ai peggiori istinti e alle soluzioni più pigre, Sette Minuti Dopo Mezzanotte pretende commozione senza mai crearla davvero
La storia di un bambino alle prese con un gigantesco mostro della natura che vuole insegnargli qualcosa, che ogni volta che lo incontra lo sottopone ad una specie di seduta di psicanalisi per risvegliare in lui un ricordo sopito ed un’ammissione, proprio nei giorni in cui la madre cui è molto legato sta morendo di cancro, è un viaggio nella tenerezza che non ha nulla della profondità filmica di The Impossible. Nonostante sia contaminato da quella stessa identica tensione verso lo scuotimento dello spettatore, quella stessa grossolana e caotica idea di messa in scena che urla in faccia al pubblico il fatto che sullo schermo sta avvenendo qualcosa di commovente e gli impone la lacrima, stavolta tutto il film sembra essere stato pensato non per convincere, avvolgere e ammaliare, ma per autocelebrare il proprio stile.
Quel che regge questo film è in buona sostanza una grandissima scenografia fatta di CG (ottima), scuole private, nonne e distruzione esteriore (quella della Terra, degli interni e delle piccole cose) che rappresenta una distruzione interna, nel più sfiancante dei luoghi comuni della sofferenza. Era dai tempi in cui un’immagine riflessa in uno specchio crepato rappresentava una doppia personalità che non si vedeva un simile abuso dei topoi del linguaggio cinematografico, un simile pigro fumo negli occhi spacciato per grande artificio.