Sette Minuti Dopo Mezzanotte, la recensione

Abbandonato ai peggiori istinti e alle soluzioni più pigre, Sette Minuti Dopo Mezzanotte pretende commozione senza mai crearla davvero

Critico e giornalista cinematografico


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Un regista come Bayona, così spavaldo nei confronti del kitsch, così arrogante nel proporre grandissime storie fatte di urla e pianti, parenti divisi, bambini in difficoltà e calamità naturali immense come era The Impossible, è sempre sul crinale del rischio, sta sempre lì lì per fare un film come Sette Minuti Dopo Mezzanotte, cioè uno che dia sfogo al suo lato oscuro e segni la vittoria della pigrizia sul controllo.

La storia di un bambino alle prese con un gigantesco mostro della natura che vuole insegnargli qualcosa, che ogni volta che lo incontra lo sottopone ad una specie di seduta di psicanalisi per risvegliare in lui un ricordo sopito ed un’ammissione, proprio nei giorni in cui la madre cui è molto legato sta morendo di cancro, è un viaggio nella tenerezza che non ha nulla della profondità filmica di The Impossible. Nonostante sia contaminato da quella stessa identica tensione verso lo scuotimento dello spettatore, quella stessa grossolana e caotica idea di messa in scena che urla in faccia al pubblico il fatto che sullo schermo sta avvenendo qualcosa di commovente e gli impone la lacrima, stavolta tutto il film sembra essere stato pensato non per convincere, avvolgere e ammaliare, ma per autocelebrare il proprio stile.

Sette Minuti Dopo Mezzanotte sembra partire dal presupposto che questi eventi, questi personaggi e questa tenerezza ci commuoveranno comunque, che non è necessario fare alcuno sforzo per piantare, curare e coltivare il sentimento nello spettatore, perché esso è già lì, occorre solo scatenarlo, accenderlo come si fa con un interruttore tramite alcuni momenti tradizionalmente deputati a quel lavoro (un pianto, una rivelazione clamorosa, un sofferto momento all’ospedale). Non c’è nessuna vera costruzione narrativa dietro il meccanismo dell’appuntamento fisso con il mostro su cui è fondato il film. Non c’è nessuna narrazione interna a questo scheletro, solo un battere sempre sul medesimo tasto in modi differenti (e alcune animazioni in questo senso sono ottime) fino a che non si sfonda il muro della resistenza nello spettatore.

Quel che regge questo film è in buona sostanza una grandissima scenografia fatta di CG (ottima), scuole private, nonne e distruzione esteriore (quella della Terra, degli interni e delle piccole cose) che rappresenta una distruzione interna, nel più sfiancante dei luoghi comuni della sofferenza. Era dai tempi in cui un’immagine riflessa in uno specchio crepato rappresentava una doppia personalità che non si vedeva un simile abuso dei topoi del linguaggio cinematografico, un simile pigro fumo negli occhi spacciato per grande artificio.

Impossibile non commuoversi se avete già deciso che vi commuoverete, impossibile lasciarsi prendere se pretendete che sia il film a trascinarvi nel vortice sentimentale.

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