Mindhunter (seconda stagione): la recensione

Torna Mindhunter, la serie che racconta le storie dei profiler dell'FBI, e lo show si conferma uno dei più sofisticati di Netflix

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Nei suoi momenti migliori, Mindhunter è una serie scritta in stato di grazia. Lo è quando applica la grammatica del thriller poliziesco con misura e metodo, senza strafare. Sono frangenti nemmeno troppo rari, in cui l'eleganza della messa in scena sposa un senso di strisciante inquietudine. Qui, il brusìo del mondo che brucia, della ragione stessa che brucia, si trasforma in un incendio controllato, carico di distruzione latente, e proprio per questo affascinante. Ancora una volta, quell'incendio sono i serial killer interrogati o cercati dalla task force dell'FBI. La serie Netflix ce ne racconta le indagini, in una delle serie più sofisticate della piattaforma.

Dopo gli eventi della prima stagione, ritroviamo gli agenti Holden Ford e Bill Tench (Jonathan Groff e Holt McCallany), ancora una volta impegnati come profiler. Attivi sul campo, e coadiuvati dall'agente Wendy Carr (Anna Torv), si rimettono in piedi dopo le criticità emerse nel finale della prima stagione. C'è un nuovo responsabile, Ted Gunn (Michael Cerveteris) e un nuovo caso che si impone all'attenzione dell'opinione pubblica. Divisi tra la vita professionale e quella personale, i membri della squadra devono ancora una volta darsi da fare per tracciare un profilo attendibile che permetta di catturare un serial killer.

Dove la prima stagione affondava le proprie radici nel crollo degli ideali americani tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, la seconda va oltre. Ancora una volta, l'esistenza dei serial killer non è l'anomalia da stroncare, ma la statistica da sviscerare, combattere e, in certi casi, prevenire. Nel tracciare profili che siano attendibili, come nel caso dell'assassino di bambini di colore di Atlanta, la scrittura della serie – così come la cronaca – non può prescindere dalle fratture sociali, anche solo per superarle e trovare nuovi schemi. Ecco quindi che la lettura razzista dietro i tragici eventi mischia politica, società, storici contrasti, diffidenza.

Nel grande caso che appassiona e regge i fili della stagione, la stagione puntella la trama con gli incontri in carcere con i serial killer. Qui tocca con mano l'eccezionalità, l'orrore a misura di cella, il fascino del male. Sono i momenti più esaltanti, come lo erano nella prima stagione gli incontri con Ed Kemper (che qui ritorna). Lo spazio si restringe, ma è il tempo a dilatarsi, in sessioni che concedono allo spettatore sempre più minuti di quanto ci si aspetterebbe. Superfluo dire che sono anche le scene che scorrono più velocemente, proprio perché così cariche di tensione, forti nel singolo gesto o nella singola parola, sostenute da un grande lavoro di sound design.

Il monolitico Ed Kemper della prima stagione si infrange allora in una serie di incontri singoli con diverse figure più o meno note. Tutte queste sono caratterizzate soprattutto da un grande lavoro di casting, ma a spiccare, e non è solo soggezione psicologica, è l'incontro con Charles Manson (Damon Herriman). Come ci viene ricordato più volte, Manson non ha mai ucciso direttamente nessuno, ma in lui è più forte quella forza attrattiva, la coltivazione consapevole del sacro timore che può esercitare sugli altri. La scrittura poi ha buon gioco nel legarne i discorsi con i problemi personali vissuti dall'agente Tench in famiglia.

Come nella prima stagione, Mindhunter paga una netta flessione nel momento in cui sposta la lente sulla vita privata dei personaggi. Tench, miglior personaggio della serie, riesce a districarsi in una storyline molto drammatica e cucita ad hoc su di lui e sulla sua famiglia per fare da contraltare alle vicende dello show. Holden, freddo e a suo modo alienato, fa un passo indietro, di fatto abdicando alla propria sfera privata e diventando un semplice strumento utile alla risoluzione del caso. Davvero difficile digerire la storyline romantica di Wendy, mero riempitivo, quando invece sarebbe più interessante osservare Anna Torv "sul campo".

Regia di David Fincher nei primi tre episodi, Mindhunter si conferma come una delle serie più eleganti e sofisticate della piattaforma, capace di imbrigliare una materia così malsana e farne materiale per un ottimo racconto televisivo. Ancora una volta, a reggere parte del fascino della narrazione rimane l'emblematico e filosofico "affaccio sull'abisso" delle perversioni. Qualcosa a cui sarà difficile non pensare in certi momenti, come quando vediamo funzionari, professionisti, persone comuni che pendono dalle labbra di Tench in cerca di particolari scabrosi. Rammentandoci che, in fondo, non saranno troppo diversi da noi che ci esaltiamo all'apparizione di Manson in scena mentre attendiamo di sentire la sua prossima frase.

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