Mindhunter (seconda stagione): la recensione
Torna Mindhunter, la serie che racconta le storie dei profiler dell'FBI, e lo show si conferma uno dei più sofisticati di Netflix
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Dopo gli eventi della prima stagione, ritroviamo gli agenti Holden Ford e Bill Tench (Jonathan Groff e Holt McCallany), ancora una volta impegnati come profiler. Attivi sul campo, e coadiuvati dall'agente Wendy Carr (Anna Torv), si rimettono in piedi dopo le criticità emerse nel finale della prima stagione. C'è un nuovo responsabile, Ted Gunn (Michael Cerveteris) e un nuovo caso che si impone all'attenzione dell'opinione pubblica. Divisi tra la vita professionale e quella personale, i membri della squadra devono ancora una volta darsi da fare per tracciare un profilo attendibile che permetta di catturare un serial killer.
Nel grande caso che appassiona e regge i fili della stagione, la stagione puntella la trama con gli incontri in carcere con i serial killer. Qui tocca con mano l'eccezionalità, l'orrore a misura di cella, il fascino del male. Sono i momenti più esaltanti, come lo erano nella prima stagione gli incontri con Ed Kemper (che qui ritorna). Lo spazio si restringe, ma è il tempo a dilatarsi, in sessioni che concedono allo spettatore sempre più minuti di quanto ci si aspetterebbe. Superfluo dire che sono anche le scene che scorrono più velocemente, proprio perché così cariche di tensione, forti nel singolo gesto o nella singola parola, sostenute da un grande lavoro di sound design.
Come nella prima stagione, Mindhunter paga una netta flessione nel momento in cui sposta la lente sulla vita privata dei personaggi. Tench, miglior personaggio della serie, riesce a districarsi in una storyline molto drammatica e cucita ad hoc su di lui e sulla sua famiglia per fare da contraltare alle vicende dello show. Holden, freddo e a suo modo alienato, fa un passo indietro, di fatto abdicando alla propria sfera privata e diventando un semplice strumento utile alla risoluzione del caso. Davvero difficile digerire la storyline romantica di Wendy, mero riempitivo, quando invece sarebbe più interessante osservare Anna Torv "sul campo".
Regia di David Fincher nei primi tre episodi, Mindhunter si conferma come una delle serie più eleganti e sofisticate della piattaforma, capace di imbrigliare una materia così malsana e farne materiale per un ottimo racconto televisivo. Ancora una volta, a reggere parte del fascino della narrazione rimane l'emblematico e filosofico "affaccio sull'abisso" delle perversioni. Qualcosa a cui sarà difficile non pensare in certi momenti, come quando vediamo funzionari, professionisti, persone comuni che pendono dalle labbra di Tench in cerca di particolari scabrosi. Rammentandoci che, in fondo, non saranno troppo diversi da noi che ci esaltiamo all'apparizione di Manson in scena mentre attendiamo di sentire la sua prossima frase.