Minari, la recensione
Il primo film americano tutto coreano non stupisce, Minari finge di avere un rapporto con l'Asia ma in realtà rielabora la conquista del West
Minari fa bella mostra di quel senso per la luce naturale e il contatto con l’ambiente, il passare delle stagioni e il peso nella messa in scena dei suoi suoni e odori, che ci viene dal cinema giapponese ma è solo un'impressione. I rapporti di forza e la parabola dei protagonisti sono americani, come americano è il punto di vista di questa vita di immigrati che cercano, letteralmente, di ritagliarsi un pezzo di terra per sé. La famiglia trasferita dalla Corea non è diversa dai pionieri del West: compra un appezzamento là dove sembra essercene per tutti, lontano dalla civiltà, ci porta una casa e lavora per trasformare la terra in un’opportunità di business, per sopravvivere nelle terre selvagge.
Questa storia non vuole proporsi come l’epica di una vita ordinaria o l’elevazione della famiglia popolare, semmai ha più la patina del ricordo degli alti e bassi della propria esistenza. Passa di momento in momento seguendo più che il filo logico quello dei momenti cruciali che rimangono impressi a decenni di distanza. I momenti che fondano l’immagine di un padre nella testa di un figlio, quelli che spaventano e quelli che nonostante accada poco si fissano nella memoria perché emblematici. Questa è la dimensione migliore di un film che, complice anche una grande scelta musicale, funziona molto. E funziona nonostante sia difficile non avere l’impressione che Lee Isaac Chung abbia soggiogato in più punti la spontaneità (e quindi quel senso di verità del racconto) all’applicazione di regole e strutture del cinema indipendente americano.