Minari, la recensione

Il primo film americano tutto coreano non stupisce, Minari finge di avere un rapporto con l'Asia ma in realtà rielabora la conquista del West

Critico e giornalista cinematografico


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Cinema nuovo dal punto di vista produttivo e tradizionale dal punto di vista sostanziale. Un film indie con potenzialità Oscar con solo attori coreani e in gran parte sottotitolato è un figlio, più che di Parasite, di Narcos, cioè di una diversa disposizione del pubblico nei confronti delle storie non americane, ed è effettivamente qualcosa che solo pochi anni fa sarebbe stato impossibile da produrre. Invece questo piccolo coming of age dell’America autentica, che si muove con stampo naturalistico ma non rinuncia al bozzettismo nei personaggi è puro stile Sundance, è realizzato leggendo la bibbia del cinema indipendente americano con qualche ambizione, solo sostituendogli la copertina con quella del manuale del miglior cinema giapponese.

Minari fa bella mostra di quel senso per la luce naturale e il contatto con l’ambiente, il passare delle stagioni e il peso nella messa in scena dei suoi suoni e odori, che ci viene dal cinema giapponese ma è solo un'impressione. I rapporti di forza e la parabola dei protagonisti sono americani, come americano è il punto di vista di questa vita di immigrati che cercano, letteralmente, di ritagliarsi un pezzo di terra per sé. La famiglia trasferita dalla Corea non è diversa dai pionieri del West: compra un appezzamento là dove sembra essercene per tutti, lontano dalla civiltà, ci porta una casa e lavora per trasformare la terra in un’opportunità di business, per sopravvivere nelle terre selvagge.

Ovviamente non c'è da temere: nella strada verso la sua serena commozione Minari le piccole soste le compie tutte. Si ferma ogni qualvolta deve sottolineare un passaggio commovente e cerca di trarne il massimo profitto con grazia. Lee Isaac Chung ha ben chiaro che il suo film (parzialmente autobiografico) esiste per commuovere e trova il suo senso unicamente in quello. La lettura della storia di una famiglia che arriva in America per avere una vita migliore è unicamente quella della tenerezza, perché tutto è guardato dal punto di vista del figlio più piccolo (che sembra Akira, solo non minaccioso). Insomma Minari ha una missione e non è certo sorprendere ma fare bene quel tipo di racconto empatico che tra indie americani e cinema d'autore asiatico abbiamo visto più volte.

Questa storia non vuole proporsi come l’epica di una vita ordinaria o l’elevazione della famiglia popolare, semmai ha più la patina del ricordo degli alti e bassi della propria esistenza. Passa di momento in momento seguendo più che il filo logico quello dei momenti cruciali che rimangono impressi a decenni di distanza. I momenti che fondano l’immagine di un padre nella testa di un figlio, quelli che spaventano e quelli che nonostante accada poco si fissano nella memoria perché emblematici. Questa è la dimensione migliore di un film che, complice anche una grande scelta musicale, funziona molto. E funziona nonostante sia difficile non avere l’impressione che Lee Isaac Chung abbia soggiogato in più punti la spontaneità (e quindi quel senso di verità del racconto) all’applicazione di regole e strutture del cinema indipendente americano.

Sei d'accordo con la nostra recensione di Minari? Scrivicelo nei commenti dopo aver visto il film!

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