Mimì, il principe delle tenebre, la recensione

Capace di unire il gotico nordeuropeo con il folklore napoletano con coerenza e capacità, Mimì il principe delle tenebre è da sostenere

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Mimì, il principe delle tenebre, in sala dal 16 novembre

Non si normalizza, non cambia, non diventa una commedia, non ripiega verso i soliti svolgimenti del cinema italiano, Mimì, il principe delle tenebre fino in fondo è una vera e autentica stranezza. Questo non significa che sia completamente riuscito ma che è un film con un’idea precisa di ciò che vuole essere e una capacità non comune di esserlo effettivamente, coerente e tecnicamente molto ben girato e messo in scena. È difficile insomma non averlo in simpatia, anche nei suoi momenti peggiori e nelle scelte che meno funzionano, perché la sua natura gotico/criminale la accetta fino in fondo e la tiene sempre presente.

È una storia di reietti ambientata a Napoli. Mimì è un pizzettaro con piedi deformi che però è bravissimo a fare le pizze. È remissivo e mostruoso, è Edward mani di forbice che incontra una ragazza goth, una che si accompagna ai bulli (cioè figli di boss della camorra) e se ne innamora. Ricambiato. Con lei entra in un mondo di vampiri o aspiranti vampiri napoletani. Questo è un film di atmosfere prima di tutto e quelle, senza dubbio, le centra perfettamente. Immagina una Napoli adatta allo scopo e soprattutto fa un grandissimo lavoro di paesaggio sonoro, con una colonna audio fatta di musica e rumori sempre presente. Tutto al servizio della sua idea più forte: unire mitologia gotica europea e folklore napoletano, scoprendo aderenze insospettabili e armonie sorprendenti.

A fallire troppo spesso invece è il tono. Brando De Sica sceglie di muoversi sul crinale tra grottesco e ridicolo, e questo è così sottile che spesso finisce nel ridicolo. Colpa soprattutto di alcune scelte di recitazione molto sopra le righe (specialmente per i camorristi), e del tono scelto per Sara Ciocca (fuori fase in tutto il film tranne quando non è allucinata). Se infatti lei visivamente è perfetta (sembra la figlia del protagonista di Hotel Transylvania più che il ruolo di vampirella che ha nella serie di film Una famiglia mostruosa) e quando emerge da alcuni rifiuti di metallo e sembra tutt’uno con il suo ambiente, non ha però la capacità di trovare il tono giusto per quella strana visione di horror grottesco che il film cerca e che somiglia più a certi film spagnoli più audaci che a modelli americani. Paradossalmente è meglio Rocco Fasano, con la sua introversa remissività che diventa follia (per nulla facile).

Ma non c’è solo quello. Anche la parte più dolce e romantica della storia funziona poco. Anche se è chiaro che il senso del kitsch è esattamente quel che il film cerca, lo stesso è così ingenuo da non essere credibile, nonostante la storia di suo andrebbe a parare su lidi ottimi: lei è sempre altrove rispetto a lui, come appartenesse a un altro mondo, e quando lui sembra averla raggiunta scopriamo ogni volta che lei appartiene a un altro mondo ancora, la definizione stessa di amore frustrato. L’ultima delle rivelazioni poi crea un’asimmetria da codice penale che il film gestisce bene e gli conferisce il tono malato che serve. Il problema semmai è che più la storia avanza, più spinge sul sentimentale e più la recitazione si fa inadeguata alle ambizioni.

È allora la sua estetica pizza & metal a essere vincente a mano a mano che diventa protagonista, sono le signore napoletane con i santini in mano che tirano la coca e in generale le idee di caratterizzazione dei personaggi, così coerenti con luci, ambienti e colonna sonora, a creare una visione decisa che non ha mai paura di andare fino in fondo.

Davvero impossibile non averlo in simpatia. Al netto di tutto.

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