Miami Beach, la recensione
I consueti schemi e il consueto umorismo trova l'incastro perfetto con i protagonisti giusti, Miami Beach è un bicchiere decisamente mezzo pieno
Per Miami Beach il bicchiere è indubbiamente mezzo pieno. L’avventura americana di due padri appresso alla propria prole e le parallele avventure (ovviamente romantiche) di questi figli sono colorate con la vivacità dei loro esiti migliori.
Eppure se c’è un Max Tortora così in forma (e va riconosciuto che solo i Vanzina riescono a farlo rendere in questo modo), capace anche di supportare la ben meno efficace Paola Minaccioni, se c’è il solito amaro Ricky Memphis in fase di risacca sentimentale e Giampaolo Morelli maturo seduttore (15 anni dopo South Kensington e la serie tv Anni ‘60), anche un film ingenuo come Miami Beach (in cui le feste universitarie hanno i palloncini al muro e ognuno dichiara a voce quel che prova) riesce a mantenere tutta una serie di promesse che non fa. Non è infatti un film vacanziero scemo e spensierato come titolo e cartellonistica cercano disperatamente di far pensare, ma più un’avventura americana (l’ennesima per i Vanzina) di sentimentalismo naive, di piccole semplicità e sorprendente serenità nel suo capovolgere i fronti. Non è nemmeno un film comico questo ma una commediola di pochissime pretese che non azzecca battute ma centra tutti i ritmi, dotata di una scrittura calibrata esattamente su quegli attori in quel momento della loro carriera, tutta la scrittura di Miami Beach fornisce la sensazione che in nessun altro modo avrebbe potuto funzionare, che viva e prosperi in un equilibrio delicatissimo.