Mia, la recensione
Assecondando le più pigre ed elementari convenzioni del cinema in Mia non si guarda ma si subisce una storia che esiste per provare una tesi
La recensione di Mia, il film di Ivano De Matteo nelle sale dal 5 aprile
Mia fissa un nuovo precedente. Almeno per il cinema contemporaneo. È la storia di una ragazza di 16 anni (Mia) che si innamora di un ragazzo più grande di lei e che da lui viene plagiata. Si veste come dice lui, frequenta chi dice lui, sta solo con lui, litiga con tutti perché la mettono in guardia sul suo conto, fino a che lui non farà di lei quel che vuole gettandola nella disperazione più totale. Ma i protagonisti sono i genitori, che vedono questo accadere, lo capiscono anche e tuttavia non riescono a intervenire. E del resto lo capiamo anche noi, perché fin dall’inizio il villain ci è presentato come tale, con foschi presagi e nubi nere, mentre guarda da lontano la sua preda con fare meschino attendendo di entrare in azione.
Così senza appello e senza possibilità per lo spettatore di muoversi all’interno della storia è Mia, che non è possibile fuggire dalla sua rigida schematizzazione. Il carnefice non ha niente di umano, è un mostro figlio di una persona abbiente con un business squallido e florido (la vendita di auto), mentre il protagonista guida l’ambulanza e aiuta i senzatetto prima di essere portato dagli eventi in un gorgo che ne modifica anche le azioni. Non siamo portati a farci idee complesse, siamo chiamati a essere informati di come stanno le cose nel mondo e partecipare al dolore ingiusto, che è stato scritto per essere così. Inaccettabile.