Mia, la recensione

Assecondando le più pigre ed elementari convenzioni del cinema in Mia non si guarda ma si subisce una storia che esiste per provare una tesi

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Mia, il film di Ivano De Matteo nelle sale dal 5 aprile

Un film che parla di revenge porn, abusi psicologici e di una ragazza manipolata da un uomo più grande che la ritiene di sua proprietà tutto raccontato per mostrare quanto queste situazioni distruggano un altro uomo? Sul serio una storia di questo tipo è messa in scena puntando tutto sulla creazione del dolore nello spettatore? Un torture porn delle lacrime in cui si abusa di espedienti che non servono al senso del film ma servono solo alla generazione di lacrime, scritto e girato con il mantello del cinema impegnato? I film di Ivano De Matteo sono sempre stati gonfi di questa idea di essere sostenuti da una missione e portatori di storie cariche di gravi fenomeni sociali da raccontare, scritti per veicolare tesi ben determinate che condizionano la scrittura invece che emergere da essa, ma qui è veramente troppo.

Mia fissa un nuovo precedente. Almeno per il cinema contemporaneo. È la storia di una ragazza di 16 anni (Mia) che si innamora di un ragazzo più grande di lei e che da lui viene plagiata. Si veste come dice lui, frequenta chi dice lui, sta solo con lui, litiga con tutti perché la mettono in guardia sul suo conto, fino a che lui non farà di lei quel che vuole gettandola nella disperazione più totale. Ma i protagonisti sono i genitori, che vedono questo accadere, lo capiscono anche e tuttavia non riescono a intervenire. E del resto lo capiamo anche noi, perché fin dall’inizio il villain ci è presentato come tale, con foschi presagi e nubi nere, mentre guarda da lontano la sua preda con fare meschino attendendo di entrare in azione.

Il cinema italiano spesso mostra di avere un’idea molto bassa dei suoi spettatori, visto come li tratta e li imbocca, e in questo caso la prospettiva è più stringente ancora. Il pubblico di Mia viene educato dal regista Ivano De Matteo e nella maniera più dura, obbligato a guardare un problema che riguarda le donne dal punto di vista di un uomo e della sua sofferenza. Intorno a quella sofferenza ci gira, se la gusta, la prepara, la apparecchia e quando è il momento sfodera le foto della figlia da piccola (inutili ai fini della narrazione, utilissime solo per aumentare il senso di ingiustizia e l’immedesimazione con il padre sofferente), le inquadrature delle grida rivolte al cielo (sic!) e dei pianti singhiozzanti di Edoardo Leo nel letto.

Così senza appello e senza possibilità per lo spettatore di muoversi all’interno della storia è Mia, che non è possibile fuggire dalla sua rigida schematizzazione. Il carnefice non ha niente di umano, è un mostro figlio di una persona abbiente con un business squallido e florido (la vendita di auto), mentre il protagonista guida l’ambulanza e aiuta i senzatetto prima di essere portato dagli eventi in un gorgo che ne modifica anche le azioni. Non siamo portati a farci idee complesse, siamo chiamati a essere informati di come stanno le cose nel mondo e partecipare al dolore ingiusto, che è stato scritto per essere così. Inaccettabile.

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