Metro Manila, la recensione
Cinema britannico in trasferta filippina per un pezzo di vero cinema umano e thriller, religioso, duro e capace di mettere in crisi. Metro Manila è una perla
In questa storia ci sono almeno 3 film diversi. C’è il primo, quello di una famiglia in difficoltà che si sposta dalla campagna alla città, lui e lei sono giovani e innamorati ma non c’è lavoro e quindi tentano la fortuna a Manila con una bambina piccola a cui fa male un dente e un neonato. Qui il “miserabilismo” del film è al massimo, spinto senza remore sul registro pietistico. Della città inizialmente capiranno pochissimo (bello l’arrivo con il sonoro della metropoli, la confusione delle riprese da lontano) e subiranno le ingiustizie di chi si approfitta di loro.
E infine ce n’è un terzo di film nel finale che è quando tutto precipita e diventa Cane di Paglia di Peckinpah.
Ellis è bravissimo, lento e dosato nel suo racconto, lavora ottimamente su dialoghi e silenzi riuscendo a scatenare interesse e partecipazione ai dilemmi già dalla prima parte, quella meno tesa. Soprattutto permea questa storia, che in altre mani poteva essere anche un film d’azione, di uno spiritualismo cristiano e di una luce religiosa che rispecchiano le idee dei protagonisti e impongono questioni morali. Dio è molto presente anche se poco menzionato, la maniera in cui Metro Manila guarda l’umiltà dei suoi protagonisti tradisce l’approccio religioso, eppure sarà proprio questa religione di colpe, pene, espiazioni, fioretti e dolore propedeutico alla grazia, a regalare poi una seconda parte fenomenale, piena di contraddizioni e dilemmi.
Forse Sean Ellis in certi punti è un po’ semplicistico ma la scelta di un registro popolare è funzionale al film, e ad una certa ingenuità di fondo, verso la quale però Ellis ha una posizione: la vede sempre come una virtù e mai come un difetto.