Men, la recensione

Men di Alex Garland fatica a conquistare intellettualmente come vorrebbe, eppure per più di un'ora scava sotto pelle solo con le sue immagini

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Men
Spoiler Alert

Raramente i film a tesi sopravvivono a se stessi. Men, di Alex Garland, è una rara eccezione. Per tutto il tempo si preoccupa che arrivi forte e chiaro ciò che vuole far sperimentare al pubblico ad ogni costo: l’oppressione femminile in un mondo in cui gli assurdi e violenti comportamenti degli uomini sono coperti da un sistema sociale consolidato; l’elaborazione della morte tragica del marito che insegue la protagonista Harper (Jessie Buckley); i fantasmi della colpa che imprigionano. 

Non interessano le sfumature: è chiaro chi è la vittima, ma soprattutto è chiarissimo chi sono i carnefici. Guai a dubitarne. Consapevole del suo pensiero nazional popolare (tutti gli uomini sono uguali, la violenza è una regressione infantile del maschio incapace di assumersi le responsabilità) Men lo nasconde dietro un simbolismo intellettuale spinto fino al body horror.

Un disastro molto furbetto. Se non fosse che per 2\3 della sua durata il film costruisce un’atmosfera raggelante. Incredibilmente riesce a fare veramente esperienza della soffocante angoscia di chi è costantemente definita dallo sguardo altrui. Usa gli spazi e i silenzi per infondere un senso di impotenza che da tempo non si vedeva in un horror. È un film di mostri deformi e quasi soprannaturali in cui però questi fanno di tutto per essere carini, simpatici, accettabili. 

Si inizia con Geoffrey. Lui è il modello su cui si costruiranno tutte le altre comparse. Garland incolla il volto dell’attore Rory Kinnear su tutti gli uomini che incontra Harper durante la sua permanenza nella casa di campagna presa in affitto. 

Il gioco orrorifico è soprattutto sul confine del perturbante: “lo spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”, per usare parole di Freud. Già con Ex Machina, Garland rifletteva sulla uncanny valley: quella zona della percezione in cui gli oggetti artificiali (i robot, ad esempio) sono così simili al reale da causare il contrario della sensazione di familiarità che vorrebbero. Nasce così l’inquietudine di ciò che è come un umano, ma non è umano. Allo stesso modo in Men il lavoro visivo più affascinante nasce dal sorriso di Geoffrey e da simili dettagli fuori posto.

I suoi dialoghi sono sempre fuori ritmo. Le risposte arrivano o troppo presto o troppo tardi. La sua ironia è ottiene l’opposto del fine che vuole perseguire. Ognuna delle tante battute che pronuncia è in realtà un’accusa, poi corretta dal ghigno. Come la mela colta dall’albero da Harper: è il frutto proibito, dice ridendo. C’è qualcosa di fuori posto nei suoi denti: troppo bianchi, troppo evidenti, come se l’intero volto fosse una maschera. E, in parte, così è.

L’oppressione delle donne si consuma anche negli sguardi compiacenti, nei sorrisi finti e superiori. Garland non dice nulla di nuovo, anzi, ma riesce a farlo provare sotto pelle. Succede la stessa cosa con tutti gli uomini del paese: soggetti famigliari che appaiono artificiali nel loro modo di rassicurare. C’è sempre un dettaglio fuori posto: l’unghia dell’indice non tagliata nella mano curatissima del prete. Le posizioni con cui, al bar, i clienti scelgono di circondare la protagonista. Fino alle suggestioni più palesi e clamorose come il volto di un adulto sul corpo di un bambino e il cronemberghiano ciclo di rinascita dalla carne.

Men, a conti fatti, è razionalmente un po’ un pasticcio. Però non lo è per la sua costruzione, ma solo per il suo finale. Negli ultimi 20 minuti cede. Non ce la fa più a mascherare la sua voglia di essere una grande metafora nascosta sotto tonnellate di atmosfera. Così, proprio nel momento più spaventoso, il film perde tutta la sua carica. Chiude su un’ambiguità che non interessa nessuno, insiste su delle trovate visive ben più banali di quelle che crede.

Ed è un peccato che non cancella tante intuizioni brillanti, dato che fino ad un passo dal culmine Garland è riuscito ad accumulare sequenze magistrali di suspense. Una galleria in mezzo al bosco attrae la protagonista grazie all’eco che le restituisce. Improvvisa così un canto che si incastonerà nella colonna sonora. Dalle ombre del fondo dell’inquadratura in una profondità tiratissima, emerge un uomo.

C'è tutto un film che si svolge dietro la schiena della donna. Alle spalle e nell'ombra, non vista eppure pienamente percepita.

Il mito antico dell’Uomo verde e della divinità generativa Sheela na Gig si fondono con l’istinto psicanalitico dei personaggi. La religione è estranea agli uomini che la assediano, persino al prete. Tutti pretendono di esercitare la scienza della mente: capire Harper, spiegarla, sviscerarla razionalmente. È una tensione alla definizione ad ogni costo della donna che attraversa tutto Men. Lei è Ms. o Mrs? Deve chiedere scusa o deve riceverla? Che doveri ha? Che diritto ha di occuparsi di sé? 

Men è un film volutamente incompiuto. Perché, nonostante l’ottima performance di Jessie Buckley, ci lascia con l’impressione di non avere mai conosciuto la donna che ha riempito ogni inquadratura. Non c’è dialogo senza che le venga attribuito un aggettivo, un’indicazione, un consiglio. Eppure lei resta un mistero. Non sappiamo nemmeno se lei veda effettivamente gli uomini tutti uguali. Questo perché, nella foga di dirle chi deve essere, nessuno le ha mai chiesto chi sia. 

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