Men in Black: International, la recensione

Il quarto film della serie Men In Black cambia ragion d'essere e non riesce ad integrare davvero un personaggio femminile

Critico e giornalista cinematografico


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Non c’è niente di peggio di un film timoroso, e Men in Black: International lo è. È timoroso di non essere all’altezza dell’originale (e ha buone ragioni a esserlo), è timoroso di non essere sufficientemente corretto, è timoroso di non far ridere a sufficienza e di non essere esotico come altri blockbuster. Quindi l’avventura nella sede londinese dei Men In Black segue pedissequamente il manuale di questo tipo di film (inclusa la scoperta di chi sia il cattivo, come e perché), non ha voglia di essere originale, si sposta pretestuosamente in diverse location (quasi le stesse di Aquaman) e alla fine finisce dove era iniziato senza quasi nessuna evoluzione per i personaggi, facendo cioè il minimo lavoro su di loro.

Tutto questo sarebbe passabile se almeno Men in Black: International vivesse il suo momento, se almeno godesse e facesse godere delle sue singole scene. Ma non è così.

Quella strana forma di umorismo non convenzionale nella scoperta di un sottobosco alieno e metropolitano nella nostra realtà non solo non c’è ma proprio è rifiutato. Questo quarto Men in Black, il primo senza Will Smith, scritto dagli autori di Iron Man 3 e Transformers - L'Ultimo Cavaliere con il regista di Straight Outta Compton al timone, è pensato come fosse un film di James Bond (sarà l’ambientazione britannica) tutto grandi intrighi, spionaggio e complotti da svelare. Anche quell’ordinarietà della vita degli agenti tra alieni e umani diventa marginale nel tentativo di rendere il film uguale a qualsiasi altro.

Ma il problema più grande è Tessa Thompson. Non è difficile capire che il suo personaggio porti Men in Black in una dimensione più moderna: non più una coppia di uomini ma un uomo e una donna. Tuttavia il film è così spaventato all’idea di muoversi male, essere goffo e scrivere male la sua protagonista da esaltarla senza se e senza ma. Dovremmo immedesimarci con lei ma sebbene l’agente M sia appena entrata nei Men in Black (li ha trovati da sé dopo averli visti segretamente in azione da piccola ed essere determinata a diventarne parte), appare perfetta: sa tutto, capisce tutto, azzecca tutto. Solitamente i film usano lo stratagemma del novellino o della recluta per far immedesimare lo spettatore con qualcuno che come lui entra in un mondo di cui non sa nulla (del resto lo faceva anche l’originale con Will Smith), qui invece M è inspiegabilmente una veterana.

Se non bastasse è anche umanamente impeccabile, ha qualche problema da risolvere ma non ha difetti, porta solo valori positivi. Non si lascia abbattere da niente, non è contaminata da cattiverie e assolutamente non ha un briciolo di stupidità (tutta lasciata al suo socio), non è mai ridicola, né le accade qualcosa che la possa far sembrare imbranata.

Come se non bastasse poi la paura è tale che alla fine verrà comunque detto a chiare parole che lei è meglio del suo compagno, cioè che la donna ha fatto tutto meglio dell’uomo, come verrà detto a chiare lettere che Men In Black è il nome del gruppo e “non si può cambiare in Women in Black” ma lo stesso lei verrà chiamata informalmente Woman in Black. Così che nessuno abbia da ridire. Non è così che si scrive un personaggio, e non è questo che si intende quando si parla di modificare la percezione della donna nel cinema mainstream.

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