Men in Black: International, la recensione
Il quarto film della serie Men In Black cambia ragion d'essere e non riesce ad integrare davvero un personaggio femminile
Tutto questo sarebbe passabile se almeno Men in Black: International vivesse il suo momento, se almeno godesse e facesse godere delle sue singole scene. Ma non è così.
Ma il problema più grande è Tessa Thompson. Non è difficile capire che il suo personaggio porti Men in Black in una dimensione più moderna: non più una coppia di uomini ma un uomo e una donna. Tuttavia il film è così spaventato all’idea di muoversi male, essere goffo e scrivere male la sua protagonista da esaltarla senza se e senza ma. Dovremmo immedesimarci con lei ma sebbene l’agente M sia appena entrata nei Men in Black (li ha trovati da sé dopo averli visti segretamente in azione da piccola ed essere determinata a diventarne parte), appare perfetta: sa tutto, capisce tutto, azzecca tutto. Solitamente i film usano lo stratagemma del novellino o della recluta per far immedesimare lo spettatore con qualcuno che come lui entra in un mondo di cui non sa nulla (del resto lo faceva anche l’originale con Will Smith), qui invece M è inspiegabilmente una veterana.
Come se non bastasse poi la paura è tale che alla fine verrà comunque detto a chiare parole che lei è meglio del suo compagno, cioè che la donna ha fatto tutto meglio dell’uomo, come verrà detto a chiare lettere che Men In Black è il nome del gruppo e “non si può cambiare in Women in Black” ma lo stesso lei verrà chiamata informalmente Woman in Black. Così che nessuno abbia da ridire. Non è così che si scrive un personaggio, e non è questo che si intende quando si parla di modificare la percezione della donna nel cinema mainstream.