Memory Box, la recensione

Dal presente una serie di foto e audiocassette animano il ricordo di un amore adolescenziale vissuto sotto le bombe

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Memory Box, in uscita il 14 aprile al cinema

C’è un meccanismo elementare alla base di Memory Box, il passaggio di memoria tra donne della medesima famiglia. Arriva un pacco nella casa benestante dei protagonisti a Montreal e genera il panico, viene dal loro passato, dal Libano e porta un nome che non si può pronunciare. La più giovane che non sa niente e quindi non capisce il panico fa domande, vuole sapere e finisce a curiosare dove non dovrebbe scoprendo un mare di ricordi, diari, foto, audiocassette registrate che provengono dagli anni ‘80 di sua madre, quando aveva la sua età e viveva nel Libano in guerra ma amava, voleva scappare e tutto quello che si conviene a dei teenager. Il film è il racconto dello svelamento nel presente tra figlia, mamma e nonna e dei segreti nel passato in flashback.

Il cuore del film è la sua ricostruzione e questa non è niente meno che pazzesca. Con gradualità siamo condotti in un mondo che sembra animato da un emulo di Michel Gondry (senza quella capacità ma con la medesima testa) fatto di foto che si animano in stop motion e poi diventano film, di ritagli di ragazzi che corrono su fondali di altre foto ma poi anche reel di foto animate solo a tratti e una quantità impressionanti di trovate che fondono tecniche analogiche con potenzialità digitali. Il massimo il film lo raggiunge nell’apoteosi del rapporto tra i due giovani amanti, letteralmente sotto le bombe, quando corrono in moto di notte lasciandosi alle spalle bombardamenti e sparatorie irrealmente vicine. Una scena con un potenziale sincretico di eccezionale grandezza, capace di fondere il contesto bellico con il ribollire giovanile, la forza devastante delle esplosioni con l’amore adolescenziale che non li lascia in pace, tutto in un’immagine inedita di eccezionale libertà.

In questo intreccio molto semplice che prevede anche uno svelamento altrettanto semplice, è proprio il meccanismo della macchina dei ricordi e della rievocazione a trionfare, quello che fonde nostalgia e terrore della guerra, depressione per gli orrori del conflitto ed eccitazione per amori adolescenziali, ritratto edulcorato e terrificante al tempo stesso. Questa amalgama Memory Box la gestisce e la propone in una maniera e con una dovizia di immagini solo sue e non prese da nessun’altra parte, che lo rendono subito memorabile, un pezzo di cinema impossibile da dimenticare, che racconta tra le altre cose il desiderio di espandere il reame del raccontabile.

Ancora di più in un finale di eccezionale mescolanza dei toni una celebrazione funebre sfocia in uno strano Il grande freddo libanese senza rimorsi e rimpianti ma con una gioia di essere rimasti vivi e rivivere la propria giovinezza molto strana, visto quel che è successo, contaminata da un ottimismo travolgente. Eppure il vero finale, coerentemente con le scelte formali, è ancora una volta un’idea da Gondry che fonde ripresa digitale (tramite iPhone) con time lapse, con intervento “a mano” della protagonista che con il dito manda avanti e indietro un’alba. Il sole che nasce e ritorna indietro con un trucco di cinema digitale manovrato analogicamente. Il massimo.

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