Memory Box, la recensione
Dal presente una serie di foto e audiocassette animano il ricordo di un amore adolescenziale vissuto sotto le bombe
C’è un meccanismo elementare alla base di Memory Box, il passaggio di memoria tra donne della medesima famiglia. Arriva un pacco nella casa benestante dei protagonisti a Montreal e genera il panico, viene dal loro passato, dal Libano e porta un nome che non si può pronunciare. La più giovane che non sa niente e quindi non capisce il panico fa domande, vuole sapere e finisce a curiosare dove non dovrebbe scoprendo un mare di ricordi, diari, foto, audiocassette registrate che provengono dagli anni ‘80 di sua madre, quando aveva la sua età e viveva nel Libano in guerra ma amava, voleva scappare e tutto quello che si conviene a dei teenager. Il film è il racconto dello svelamento nel presente tra figlia, mamma e nonna e dei segreti nel passato in flashback.
In questo intreccio molto semplice che prevede anche uno svelamento altrettanto semplice, è proprio il meccanismo della macchina dei ricordi e della rievocazione a trionfare, quello che fonde nostalgia e terrore della guerra, depressione per gli orrori del conflitto ed eccitazione per amori adolescenziali, ritratto edulcorato e terrificante al tempo stesso. Questa amalgama Memory Box la gestisce e la propone in una maniera e con una dovizia di immagini solo sue e non prese da nessun’altra parte, che lo rendono subito memorabile, un pezzo di cinema impossibile da dimenticare, che racconta tra le altre cose il desiderio di espandere il reame del raccontabile.