Memory, la recensione

Manifesto del cinema anziano moderno, non quello girato da anziani né quello nostalgico ma quello che ragiona e si comporta da anziano

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Memory, il film di Martin Campbell nelle sale dal 16 settembre

Il cinema anziano non è solo cinema realizzato da cineasti anziani (per quanto spesso lo sia), si tratta proprio di una serie di soluzioni, trovate narrative ricorrenti, tecniche e ritmi che identificano, tutte insieme, un cinema che non è né nostalgico né vecchio stampo, ma semmai si muove come una persona anziana, parla come una persona anziana e ragiona sul mondo e sul cinema come una persona anziana, con quasi tutti i difetti dell’età e praticamente nessun pregio. Non è quindi interamente cinema anziano quello di Eastwood (almeno fino agli ultimi due film), come non è per niente cinema anziano quello di Scorsese e assolutamente non lo è quello di George Miller. Memory invece è un film anziano, uno dei più flagranti.

Il fatto che la storia sia quella di una persona anziana con problemi da persona anziana, paradossalmente, è quasi un caso. Liam Neeson ovviamente uomo duro e violento, sicario senza pietà, sta perdendo la memoria per via dell’Alzheimer, dei medicinali lo aiutano a rimanere più o meno affidabile ma è chiaro visto il titolo e viste le esigenze della storia che presto o tardi in questa parabola di omicidi su commissione rifiutati e vendetta contro i committenti (rei di non avere più il classico senso del rispetto e dell’onore) arriverà il momento in cui la questione memoria sarà un problema. Ironicamente succederà in extremis come se tutti si fossero dimenticati della cosa fino agli ultimi giorni di lavorazione.

Martin Campbell, 80 anni, già con The Foreigner e The Protege aveva mostrato segni evidenti di invecchiamento filmico, stavolta sembra quasi cercare il cinema anziano a partire innanzitutto dal look. La luce chiara, sempre e ovunque, anche quando si entra negli scantinati, un’illuminazione uniforme unita a scarsa color correction e uno staging degli attori estremamente ordinario (proprio lui che con Casino Royale aveva cambiato tutto solo 16 anni fa). Pure i punti di inquadratura sono ordinari se si eccettuano le scene d’azione dirette dalle seconde unità.

E poi la storia, rallentata nel ritmo, in cui tutto viene detto e ridetto di continuo in un moltiplicarsi di momenti di solitaria pensosità. Gli eventi cruciali sono sempre posizionati in un passato ingombrante, rievocato a parole quando va bene e con pessimi flashback quando va male. Di certo sempre un passato migliore, in cui le persone erano migliori e la vita e il lavoro (che spesso nel cinema americano sono la stessa cosa) funzionavano come dovrebbe essere. Immancabili gli scambi di dialogo in cui fare un bilancio di vita, magari da letto di ospedale, tra personaggi che hanno sempre qualcosa di positivo e dolce in fondo, note di comprensione o compassione espresse da continue ripetizioni. Tutti tranne IL MALE, che è tale senza appello, sta lì a simboleggiare tutto ciò contro cui vale la pena battersi. Non nomineremo, per decenza, posizione e ruolo delle donne.

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