Memoria, la recensione | Cannes 74

Al solito stile di Apichatpong Weerasethakul Memoria aggiunge un'interprete vera come Tilda Swinton, e tutto ha più senso

Critico e giornalista cinematografico


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Memoria, la recensione | Cannes 74

La zia Tilda che si ricorda le vite precedenti. Di colpo in un film di Apichatpong Weerasethakul la presenza di un’attrice come Tilda Swinton (una che colleziona autori come fossero Pokemon) apre squarci di comprensibilità. Questo regista tailandese graziato da una Palma d’Oro concessa generosamente da Tim Burton quasi 10 anni fa è uno dei più ermetici e volontariamente prolissi che ci siano. Senza la capacità incredibile di comporre quadri fissi appassionanti e coinvolgenti come Tsai Ming-liang, ma con la determinazione a mettere in relazione natura, suoni, paesaggi, animali ed esseri umani in quadri in cui è lo spettatore a fare tutta la fatica (per tutto il film), il suo cinema non è per tutti, anche quando la sua visione del mondo e dell’animismo che lo pervade sarebbero interessanti.

Per questo Memoria, che non devia certo dal suo solito stile, è subito il film più interessante e più concreto della sua filmografia. A differenza dei molti altri interpreti delle sue opere Tilda Swinton recita per davvero, porta cioè con il suo personaggio uno strato di interpretazione alla storia (che stavolta, incredibile, c’è) o quanto meno del senso degli sparuti eventi. È co-autrice a tutti gli effetti e per fortuna. Dalle sue espressioni, dalle sue emozioni e dalle sue reazioni (comunque moderate) riusciamo a capire cosa accada alla sua anima e al suo spirito, solitamente i reali protagonisti dei film di Weerasethakul. Sappiamo che nella sua vita in Colombia molto ordinaria sente ogni tanto un botto, un rumore fortissimo come un armadio che crolla in casa. Il rumore lo sente solo lei, la sveglia di notte e la tormenta nelle occasioni sociali, non la molla al lavoro e nessun medico sa aiutarla se non suggerendole di confidare in Dio. Solo una strana figura sciamanico-contadina delle foreste la metterà sul percorso giusto per la scoperta di una forma di memoria del mondo e dei suoi eventi che è in ogni cosa, nelle piante, nei sassi, nelle persone e nell’aria. Indagando quella Memoria viaggiamo con lei fino a quella che, forse, è l’origine della vita sulla Terra e di certo l’origine di quei botti.

C’è anche ogni tanto un velo di ironia, ad esempio il fatto che la grande consapevolezza della memoria che esiste sia sbloccata da un alcolico distillato in casa (“Una grande invenzione dell’uomo” dice Tilda) e la sensazione che stavolta questo regista tailandese sia più conscio di sé e voglia prendersi un filo meno sul serio, nonostante affermi delle idee audaci (ad essere gentili) sull’origine della vita.
Certo, nonostante il tema della memoria spirituale che attraversa tanti suoi film stavolta sia davvero a fuoco e messo in immagini con efficacia (che bella la scena della morte del contadino, lì per un attimo sembra Tsai Ming-liang, lì per un attimo quei tempi lunghissimi paiono servire a qualcosa), non ci sono dubbi che in Memoria come negli altri film del suo autore ci sia una dose superflua e fastidiosa di arroganza, di pretesa di coinvolgere lo spettatore in un gioco di interpretazioni e osservazioni che quasi mai è ricompensato per tutta la fatica.

Tutto lo sforzo della visione è finalizzato alla ripetizione di un’idea di mondo in cui le piante e i sassi hanno la medesima economia, la medesima presenza e la medesima spiritualità di una comparsa umana, in cui i suoni lavorano tantissimo per raccontare la folla di “presenze” in ogni inquadratura, come se potessimo sentire il rumore di ogni singolo stelo o ogni goccia del ruscello. È indubbiamente affascinante ma anche indubbiamente ripetitivo ed eccessivamente esigente per il poco che ha da offrire.

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