Meander, la recensione | Trieste Science+Fiction Festival 2020
Mathieu Turi si conferma con Meander come un regista di talento che sa infondere originalità a idee viste più volte nel cinema di genere
Il regista sa ispirarsi ai cult di genere come Saw e Buried infondendo però a una narrazione ad alta tensione una dose, forse inaspettata, di umanità grazie a una protagonista femminile il cui percorso personale coinvolge emotivamente gli spettatori senza dare tregua.
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Gaia Weiss regala un'interpretazione davvero emozionante nel ruolo di Lisa e Turi sa costruire con grande maestria una tensione che non dà mai tregua alla sua attrice protagonista e agli spettatori. L'espediente del percorso da compiere non limita in nessun momento lo sviluppo degli aspetti psicologici ed emotivi, sottolineati dall'espressività del volto dell'attrice, illuminato con bravura per enfatizzare ogni minimo turbamento e pensiero vissuto durante questa lotta per la sopravvivenza dal significato profondo.
Gestire una storia che si sviluppa in spazi così ristretti e poco illuminati è davvero complicato, tuttavia il filmmaker è sostenuto da un team il cui lavoro attento ha permesso di dare vita a un'atmosfera in grado, come accaduto con Hostile, di lasciare un impatto profondo.
Più di una volta il cinema di genere ha proposto situazioni simili a quella alla base del lungometraggio senza offrire alcun approfondimento psicologico ai propri protagonisti con l'unico scopo di tenere incollati alle sedie e terrorizzare gli spettatori, ma Meander compie invece in modo impeccabile un lavoro al contrario sfruttando proprio la lotta per la sopravvivenza per addentrarsi nella mente di una donna segnata da un lutto la cui forza interiore rimane sempre in primo piano, senza mai scivolare in cliché o banalità.